“L’assoluto si gioca nella prossimità,
alla portata del mio sguardo,
alla portata di un gesto di complicità o aggressività,
di accoglienza o di rifiuto”
Emmanuel Lévinas
Un'occasione persa
Al tempo della pubblicazione del saggio “La morte altrove” (Loperfido 2013), chiudevo la mia lunga riflessione sul rapporto tra migranti e morte con la speranza che una sempre maggiore visibilità dello straniero e della fine della sua vita tramite funerali e cimiteri comuni, nei tempi a seguire avrebbe potuto ampliare la percezione dello stesso nella società di accoglienza e mitigare così il fenomeno della mono-rappresentazione data dai media, il che di conseguenza avrebbe portato a una riduzione della paura del diverso. Occorre a riguardo rispolverare la citazione di Wieviorka, sempre utile e centrale per qualsiasi discorso sugli stranieri che arrivino in terra altra:
“L'influenza dei media sul formarsi delle opinioni relative a un gruppo suscettibile di
razzismo è tanto più grande quando non esiste nessun'altra forma concreta,
diretta, vissuta, di conoscenza dell'altro e se il gruppo è percepito su di un
piano che non può essere altro che immaginario” (Wieviorka 2000, 94).
I media oggi non fanno altro che interessarsi di migranti. La politica, oggi, non fa altro che parlare di immigrazione. Da destra e da sinistra però il migrante è solo un migrante immaginato mediaticamente. Forse sarebbe più opportuno dire, visti i rapidi cambiamenti della società e specialmente dei media che in essa si muovono,
dell'algoritmizzazione della figura del migrante. Il migrante è un topic che fa sempre un certo scalpore, che divide, che fa notizia: migranti pagati 35 euro per stare tutto il giorno al cellulare; migranti fermi su di una nave al largo dei porti; migranti reclusi come bestie in Libia; migranti sfruttati per la raccolta dei pomodori; migranti respinti e malmenati al confine con altri paesi europei; migranti che se non ci fosse loro l'Inps sarebbe fallita.
Ma il protagonista di queste disavventure, pochi lo hanno ben chiaro, è sempre lo stesso migrante, il migrante media-algoritmizzato, una figura astratta e senza vero volto, che vive (senza vivere realmente) solo nel pensiero di chi sta davanti alla tivù o al cellulare, senza possedere un corpo concreto, e specialmente senza alcuno “sguardo” perché se quello sguardo ci guardasse negli occhi la matrice ingannevole da cui tutti siamo ammaliati evaporerebbe in un istante, dissolvendosi come un velo di Maya piazzato davanti ai nostri occhi, un velo che non ci fa vedere chi sono realmente i nostri consimili che provengono da altri paesi.
Dunque, a distanza di sette anni, l'occasione è persa. Il migrante è sempre più nell'immaginario piuttosto che nella sua visibilità concreta. Le occasioni di vederlo sfilare nelle piazze con il proprio rituale funebre, così come auspicavo allora, sono diminuite drasticamente. Pensavo, allora, che se gli italiani avessero potuto osservare
cerimonie diverse dalle proprie, inerenti proprio quel fenomeno così misterioso e unificante che è la morte di un altro uomo, in fondo in tutto e per tutto simile a noi, in fin dei conti un nostro fratello, qualcosa sarebbe potuto scattare nel suo cuore e lentamente, benché all'inizio con scetticismo e circospezione, le differenze annullarsi nel mare dell'indistinto che la fine della vita evoca. Pensavo che la livella di decurtisiana memoria avrebbe scalfito anche gli animi più duri, innescando un processo di avvicinamento tra culture diverse. Pensavo, infine, che la vicinanza nei cimiteri delle tombe straniere con quelle italiane, grazie a quell'interessante processo per cui
nella città dei morti si riflette la struttura della città dei vivi e della loro società (Vernant 2000), avrebbe fatto capire anche a chi era più duro di comprendonio che la morte ci accomuna tutti e che così come stiamo uno accanto all'altro sotto terra così dovremmo stare uno accanto all'altro sulla terra. Mi permettevo così, nelle ultime cinque righe del saggio, di auspicare quanto segue:
“L'errore che quindi dovremmo evitare più di ogni altro, dopo aver sprofondato la nostra morte nell'oblio e averla relegata nel non-essere e nel non-detto, sarebbe quello di rimuovere dalla scena pubblica della società anche la morte dei migranti” (Loperfido 2013: 329).
Le possibilità erano due: o la morte dei migranti, divenendo più visibile, avrebbe innescato un meccanismo proficuo di avvicinamento dei migranti agli altri della società di accoglienza, rivitalizzando la morte obliata dal cittadino occidentale, o l'invisibilità
della stessa avrebbe reso ancora più distanti cittadini e stranieri, aumentando la percezione mediatica della paura del diverso e facendo perdere a noi l'occasione di affrontare la tematica per eccellenza della riflessione esistenziale: la fine della vita, quel non-senso che dà sapore al tutto ma solo se pensato fino in fondo e con sguardo coraggioso.
La strada imboccata al bivio è stata la prima, purtroppo, e il paradosso è sempre più evidente: la morte del migrante è dappertutto, in tv e sul web, ma è una morte rappresentata, per cui ci si può scandalizzare o addirittura gioire, ma solo per un lasso di tempo breve ed effimero, cioè fino a quando il servizio giornalistico non finirà, fino a quando il post non sarà obliato per sempre nello scorrere verso l'alto delle notizie più recenti. Al massimo possiamo condividere la notizia, ma non è per creare un vero cambiamento nella società, quanto per mettere a tacere la nostra “falsa coscienza” o al contrario per godere delle sofferenze altrui senza essere presenti fisicamente alla vera sofferenza.
Il migrante oggi, quando ne parliamo, è un fantasma che aleggia nell'immaginazione e la sua morte pertanto non può realmente accadere perché un fantasma è un già morto. Non sentiamo profondamente la morte dell'altro, in questo caso di un migrante o di un gruppo di migranti che disperatamente ha abitato un barcone, quanto la vaga
percezione che è accaduto qualcosa di indefinito come morire, come il “si muore” di Heidegger (Heidegger 1976), a qualcuno che per noi rappresenta qualcosa da amare astrattamente o odiare astrattamente.
Stando così le cose bisogna perfino essere più indulgenti con i troll o gli hater del web. Non odiano sul serio il migrante, ma l'idea fantasmagorica che hanno di lui; e bisogna invece sottovalutare quelle manifestazioni di vicinanza nei post o nelle chiacchiere
davanti al Tg all'ora di cena che scandalizzate e fintamente indignate si fanno senza che poi conducano a nessuna forma concreta di intervento e cambiamento, senza che poi conducano all’incontro reale, dove si parlano gli sguardi e tutto si fa vero.
La rappresentazione del reale è ormai troppo staccata dalla realtà. Esperiamo il mondo attraverso due lenti sovrapposte: quella dei nostri occhi, che già di loro distorcono, e quella delle immagini degli schermi, che dunque sono due volte colpevoli di distorsione. Ma se dei nostri occhi si poteva ben dire, come diceva Goethe, “che se non fossero solari mai potrebbero guardare il sole”, così non è per gli schermi, artificio umano che non ha relazione con la verità ultima delle cose. Parafrasando un testo apparentemente lontano dagli argomenti che stiamo trattando si potrebbe dire che “l'occhio è obbediente verso la vita e serve fedelmente la prima immagine dentro di sé, mentre noi con i nostri schermi non solo usurpiamo e sfruttiamo quell'immagine, ma siamo preda della più grave illusione dell'uomo, che gli dei distruggeranno - l'illusione di aver creato
noi stessi quell'immagine” (Van der Post 2019: 258).
Il fantasma e il folletto
Un fantasma è sempre un fantasma della mente. Si crea e abita, svolazzando tra i corridoi delle nostre connessioni cerebrali, solo nella nostra immaginazione, quando essa è incapace di confrontarsi con l'esterno e ad esso si chiude. Per questo i fantasmi
infestano le case, perché a loro piace il chiuso, la staticità della dimora che invece dovrebbe essere rassicurante. Non può esistere un fantasma che se ne vada in giro per le strade di una metropoli e se anche esistesse non metterebbe paura a nessuno. La scena pubblica è troppo dinamica per lui; incontrandolo dietro un angolo di un palazzo scopriremmo che è lui ad essere impaurito e probabilmente ci farebbe anche un poco di compassione. Il fantasma si alimenta del mancato confronto con la realtà, è un'allucinazione incontrollata [1], libera di non ricevere smentite da parte di niente e di nessuno. Quando si sente al sicuro nel suo cantuccio allora vive e vegeta, manifestandosi con incursioni notturne non troppo manifeste; meglio non farsi vedere per intero, rischierebbe di farsi scoprire per quello che è, cioè un semplice eccesso di immaginazione e il suo potere perderebbe d’intensità. Il fantasma sbatte una porta e si ritrae, apre le finestre e fa entrare al posto suo il vento che gonfia le tende illuminate
dalla luna; preferisce la notte, quando la vista dell'uomo, senso con il quale egli maggiormente percepisce le cose e smaschera gli inganni come semplici fraintendimenti, è più fallace e inutile. Come un vampiro, anche il fantasma, rifugge la luce del sole e per questo agisce sempre col buio. Sa che è durante la notte che nell'uomo le paure diventano più grandi di quello che sono e siccome lui è poca cosa deve per forza scegliere di manifestarsi in quelle ore notturne.
Una nazione che ha paura del diverso è come una casa infestata da fantasmi. In questo caso i luoghi chiusi sono quelli dove lo sguardo diretto negli occhi dell'altro, di cui si ha una paura preconcetta, non si possono incontrare. Tv e Web sono media, mediano gli
sguardi. Gli uomini e le donne non sono presenti l'uno all'altro quando digitano sulla tastiera né quando si arrabbiano con la televisione per quello che stanno dicendo quelli che vi si agitano dentro. Il razzismo da web o da ambiente mediatico non è nemmeno vero razzismo perché il vero razzismo è quello che ha superato pericolosamente la soglia dello sguardo con l'altro e ciò nonostante ci porta a dire quello che sostenevamo prima, a praticare la discriminazione. Il vero razzismo è quello che, come una specie di sortilegio, non permette all'incontro del volto dell'altro in carne e ossa di schioccare le
dita. Il vero razzismo è quello degli atti di razzismo, fatti a tu per tu, guardandosi negli occhi. Il pericolo sta in questo: se continuiamo a vivere sempre più in una realtà mediata e dunque allucinata, alimentando fantasmi senza controllo, aumenteremo anche il rischio di non avere più la capacità di riconoscere la verità delle cose immediate, anche le cose più semplici come comprendere che davanti a noi non c'è né un fantasma né un vampiro né uno zombie, ma noi stessi con un colore della pelle diverso e una lingua che semplicemente non abbiamo ancora imparato a conoscere. Il pericolo è quello di farci un’opinione sbagliata su chi siano i veri nemici e di delegare le
pratiche su come trattarli a chi li sfrutterà con interesse e cinismo. Il pericolo è quello di non riuscire più arompere la “funzione specchio” per la quale nel migrante, disorientante per eccellenza nel panorama degli incontri umani, non si fa altro che vedere le proprie paure riflesse, come ci dice Sayad:
“Abitualmente si parla di funzione specchio dell'immigrazione, cioè dell'occasione privilegiata che essa costituisce per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per
rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di innocenza o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire (ecco l'effetto specchio) ciò che abitualmente è nascosto nell'inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell'ombra, allo stato di segreto o non pensato sociale” (Sayad 2002: 10).
Lo straniero quindi, essendo estraneo e familiare, prossimo eppure profondamente distante proprio perché viene da lontano ma è vicino, ora perfino così vicino da abitare la mia mente terrorizzandola, lascia addosso la sensazione del perturbamento (Unheimliches), come se avessimo perso il nostro centro di gravità, caro e tranquillizzante.
“L’Unheimlichkeit perturba, produce un effetto di inquietudine e di estraniazione perché coincide con lo straniero non come qualcuno che soltanto sopravvenga dal di fuori, ma come straniero che è già dentro il sé, più intimo dello stesso sé. L’elemento spaesante non scaturisce da un annullamento dei confini, ma dall’affiorare di un fondo irrappresentabile, indecidibile, su cui si costituiscono quegli stessi confini. Senza dissolversi completamente, il confine si fa problematico. Il terreno del medesimo, del proprio, del familiare è insomma, nel suo stesso inevitabile determinarsi, abitato da ciò che tenta di porre al di fuori di sé. Perturbante è ciò che scaturisce – e costantemente si alimenta- dall’inquietudine legata a questo vacillamento dei confini, alla loro mobilità e porosità, attraverso cui l’altro, l’esterno, ma anche lo spettro e la morte penetrano continuamente, intaccando ogni forma di identità a sé: dell’io, delle sue rappresentazioni, dei suoi saperi. Stranieri a noi stessi, altri nella nostra identità, identici alla nostra alterità” (Curi 2010, 149).
In una situazione di incertezza sociale ed economica accade che le persone vogliano vedere confermate le loro piccole sicurezze, specialmente la loro appartenenza a un gruppo ben delineato e omogeneo. Vogliono poi che questo gruppo non sia minacciato dall’esterno. Chi ha un'identità debole tenderà ad avere paura di chi la mette in discussione e cercherà conforto in opinioni uguali alla sua. In questo contesto di fragilità
psicologica ed emotiva l'algoritmo che muove i social è la panacea di tutti i mali perché riduce le esperienze possibili a quelle proprie, facendo ristagnare le opinioni nella nota camera dell'eco (Echo Chamber) dove non facciamo altro che sentire noi stessi riverberati mille volte.
“Le persone accedono solo alle informazioni che confermano la propria identità. Il pregiudizio di conferma, un pregiudizio potente e universale insito nella natura umana […] separa le informazioni e gli universi identitari che frammentano e polarizzano la
società. In rete è facile cercare gruppi che dal vivo potrebbero essere meno
accessibili” (Hogg 2019, 89).
Ma oltre al “fantasma” la mente produce anche altri esseri immaginari, quali per esempio i “folletti”. I folletti non abitano, almeno originariamente, nelle nostre case, stanno fuori nei boschi ma quei boschi e i folletti non esistono al pari dei fantasmi e
delle case infestate. I folletti sono esseri innocui e idealizzati, forse a volte un poco burloni, ma che in fondo non fanno nulla se non sorridere al nostro passaggio e se anche fanno qualcosa hanno mestieri antichi, che non vuole più fare nessuno, sono poveri artigiani che la sera si riuniscono in una comunità pacifica e che non dormono mai, e se anche andassero a letto dormirebbero il sonno dei giusti. Non bisogna però rivolgergli mai la parola perché forse, anche loro, se parlassero dimostrerebbero di non esistere al pari dei fantasmi. Insomma non bisogna entrarci troppo in relazione, bisogna tenerli a una certa distanza, al massimo li si può invitare a venire nelle nostre case,
in un'abitazione umana, per mettersi al nostro servizio o al servizio dei nostri cari. In tal caso verranno chiamati “folletti domestici” o “folletti che fanno il lavoro di valletti” o più semplicemente “filippini” o a volte perfino “badanti”. I folletti domestici abitano la nostre vite ma in realtà hanno una vita tutta loro, guardandoli negli occhi fissamente svanirebbero nel nulla, meglio dunque non pensarci, sono così carini, sembrano perfino degli addobbi di Natale. A loro credono i bambini, ma anche gli adulti che non hanno nessuna voglia di capire chi siano realmente, perché è facile per i folletti diventare
il loro opposto, un incubo di cui non ci si può più liberare. Incubo e idealizzazione infatti sono facce della stessa medaglia, entrambi sono mostruosità della mente, alimentati da un giudizio chiuso in se stesso e che non vuole uscire per le strade a confrontarsi col mondo reale.
Ebbene i migranti non sono né fantasmi né folletti, i migranti sono persone in carne e ossa.
La morte in cerca di asilo
Anche la morte ha una terra dove vivere e prosperare, è la ragione degli uomini. Lì, se pensata fino in fondo, potremmo dire persino con amore, dà i suoi frutti migliori. Di certo non unico tra gli animali ad averne consapevolezza (Tattersall 2008), l'uomo è però
l'unico a possedere un senso completo e strutturato della morte, con il quale è possibile comportarsi in due modi soltanto: tramite l'oblio o tramite una riflessione profonda e matura, che conduce sempre a scoperte eccezionali. Il primo approccio con la consapevolezza che un giorno dovremo morire è sempre traumatico e destabilizzante (Morin 1980), così come traumatico e destabilizzante è l'irrompere della morte di chi faceva parte delle nostre più intime relazioni umane e sociali. La tela di cui era intessuta la nostra inconscia percezione della comunità si lacera e questo strappo provoca dolore. Così è per le nostre consolidate reti neuronali: un vuoto improvviso ci riempie
di sofferenza e dobbiamo fronteggiarlo. Scappare e lasciarlo lì, voltare gli occhi da un'altra parte per ricominciare a vivere senza farci i conti, è una rimozione inutile e deleteria, che sbatte la morte fuori dalla porta e la lascia libera di fare danni come un animale rinselvatichito (Aries 1980).
“Per non vedere l'abisso, per sfuggire alla vertigine e alla noia, all'angoscia e alla
disperazione, l'uomo si copre il volto e si distrae con le futilità mondane, con i passatempi tumultuosi che riempiono l'intervallo; si stordisce di gioia con agitazioni artificiali e superficiali" (Jankélévitch 2009, 43).
Bisogna invece addomesticarla, legarla ai lacci ben stretti della cultura (Cavicchia Scalamonti 1984), non lasciarsela sfuggire. In poche parole: non bisogna averne paura, ma pensarla in ogni suo aspetto e cercare di capire se non abbia qualcosa di costruttivo da dirci, proprio lei che più di ogni altra consapevolezza sembra distruttrice e
annichilente. Vedremo allora, dopo un primo momento di angoscia e spaesamento, che la morte sa regalarci anche un grande dono, che è quello di una visione della nostra vita che vada al di là di essa, una trascendenza non necessariamente religiosa.
“Io morirò, questo è certo” sembra dire a quel punto la nostra anima, “ma allora perché mi aggiro attorno a me stesso e mi comporto come una falena attorno alla luce del lampione? Devo trovare qualcosa che mi trascenda per cui valga la pena vivere, perché come sostiene Martin Luter King “se un uomo non ha scoperto nulla per cui vorrebbe morire, non è adatto a vivere”.
Allo stesso modo la nostra anima sembra giungere anche a un'altra riflessione: “I miei cari un giorno moriranno, questo è certo, ma allora perché non apprezzo appieno la loro presenza adesso? Perché non riesco a vedere la brillantezza e la preziosità di ogni istante passato con loro, irripetibile e misterioso come le cose che non sono eterne?”.
E infine la nostra anima arriva a questa conclusione: “Anche coloro che non sono e non sento come i miei fratelli un giorno moriranno e questo mi accomuna a loro e accomuna a loro i miei fratelli. Ma allora perché continuo a dargli battaglia invece di considerarli parte di una più grande famiglia chiamata umanità?”.
La partita a scacchi con la morteva giocata, questo è poco ma sicuro, perché riserva sorprese per il giocatore umano. La morte permette all'uomo di uscire dal qui e ora per proiettarsi in un senso più grande, sia verso il futuro che verso il passato e il presente. Essa rende sacra la vita propria e quella altrui perché “la vita deve il suo valore alla morte, ovvero - per usare un'espressione di Hans Jonas - è solo perché siamo mortali che contiamo i giorni e giorni contano” (Salvarani 2005, 10).
Eppure non è così e la morte per l'uomo occidentale è un tabù pornografico (Görer 1963) da rimuovere dalle scene pubbliche (Elias 1985), che non deve prendere posto a tavola insieme agli altri argomenti e non deve figurare in nessun discorso pubblico che abbia la pretesa di essere decente. La morte è indiscreta, pur accadendo nella sua
superficialità astratta oggi più che mai, in ogni film, nei telegiornali, nelle guerre, nei mattatoi e nel mondo. Se infatti la morte oggi è presente sulle scene pubbliche è solo perché lo è nella sua forma innocua, depotenziata della sua carica reale, traumatizzante e sconvolgente e dunque anche della sue caratteristiche più sorprendenti di rinnovamento e rinascita. L'uomo occidentale, secolarizzato, individualista, consumista e narciso, non ha più gli strumenti antichi, costruiti nel tempo e a duro prezzo, che gli permettevano di attutire e gestire l'impatto terrificante che il trauma della consapevolezza della morte comporta. Egli non può più guardarla negli occhi perché è solo, senza una cultura radicata che gli dia le parole, la prassi e la
forma mentis per uscirne salvo. La morte lo paralizza e lo pietrificacome lo sguardo di Medusa (Vernant 2013), meglio trattarla con superficialità, anzi non trattarla affatto. L'uomo occidentale rimanda e sottovaluta la morte allo stesso modo con cui gli Stati rimandano le scelte sui cambiamenti climatici e ne sottovalutano gli effetti, sottovalutando dunque il pensiero della fine dell'umanità. “Accadrà? Non accadrà?” dicono, “Chi lo sa? Ma adesso scusatemi, devo andare... ho un impegno di lavoro e si sa il lavoro nobilita l'uomo”. Regna così l'ansia del fare, del crescere per l'avere, che poi è in effetti, sia a livello individuale che collettivo, la migliore strategia per non fermarsi a pensare fino in fondo a se stessi e a quel che ci accadrà un giorno. Un incantesimo è stato gettato sull'uomo contemporaneo e niente e nessuno sembra poterlo risvegliare, né con un bacio né con uno schiaffo. Non esistono più audaci pensieri alternativi, né in politica, né in economia e nemmeno nell'arte. Il grande blob dello spirito del consumo ingloba lentamente tutto e perfino il contrario di tutto e avanza come il Nulla della storia di Michael Ende. Così al galoppo, inebriato di se stesso e dei propri gas di scarico, l'Occidente ha fatto il giro del mondo, penetrando dappertutto e riunendosi con il proprio inizio. Oggi ad essere occidentale è tutto il globo.
In questo scenario, ad agire senza essere vista, è nientepopodimeno che lei, sì sempre lei, la Morte, a cui non diamo spazio reale e che per questo si vendica riprendendoselo
sotterraneamente. L'Occidente è braccato dalla morte come da uno spettro silenzioso che sappiamo esserci ma che non vediamo mai veramente nel suo orribile e angosciante volto se non nel momento di affrontarlo sul serio, cioè nel letto di morte. L'uomo, inteso sia nella sua individualità che come specie, non può procrastinare oltre questa sfida, la sfida della verità su se stesso, o gli accadrà quello che è accaduto all'Ivan Il’ič di Tolstoj, si sentirà impreparato e perciò disperato.
Nel mio libro del 2013 credevo che una speranza potesse venire da chi, abitatore di altri luoghi e figlio di una storia diversa, aveva intatti i suoi strumenti sociali e culturali da
condividere con noi in questa entusiasmante partita a scacchi. Ma così non è stato perché le culture altre sono state rese invisibili, si è tolto loro ogni possibilità di manifestarsi. Con l'avvento delle seconde generazioni l'omologazione sarà compiuta definitivamente e non ci sarà più alcun spazio per la contaminazione. Senza più alcuna “collocazione” nella mente degli uomini, senza più alcuna possibilità di essere “istituzionalizzata” (Cavicchia Scalamonti 1984) e dunque “reinventata” (Sozzi 2009), la morte cercherà asilo in continuazione, senza mai trovarlo, mortificata. Sarà nomade e migrante, clandestina e respinta, si sposterà di giorno in giorno senza pace, divenendo
ancora di più la nostra inconscia ossessione. Cacciata da ogni parte con disprezzo
non potrà fare altro, suo malgrado, di crescere a dismisura nelle stanze chiuse delle nostre paure più recondite, venendo infine alla luce come la più terrificante delle apparizioni.
Un'antica speranza
Eppure, nonostante la fredda analisi sia questa, non tutto accade sulle scene pubbliche della politica nazionale e internazionale o nella mente chiusa delle persone e dei loro
profili social. Esiste anche la fisicità dei luoghi reali e delle persone in carne e ossa. Accade così che anche se le politiche di integrazione falliscono e quelle di disintegrazione attecchiscono, in sordina operano anche i processi di inclusione, seppure in modo lento, controverso e intermittente. La differenza tra “processi” e “politiche di integrazione” è analizzata da Ambrosini (2010):
“I primi sono costruzioni complesse, che si sviluppano nel tempo, comportano aspetti diversi non necessariamente allineati (per esempio la distinzione tra una sfera
pubblica, in cui più è necessario assumere codici linguistici e comportamentali
propri della società ricevente, e una sfera privata, più flessibile e disponibile alla conservazione o rielaborazione di tratti culturali che rimandano alla società di provenienza) e richiedono comunicazione e scambio, su basi di tendenziale reciprocità, tra popolazioni maggioritarie e gruppi minoritari. Un ruolo attivo e una volontà positiva di integrazione da parte di questi ultimi sono richiesti, pur non esonerando le società riceventi dalle proprie responsabilità.
Le politiche diintegrazione sono invece intenzionali, consapevoli, e costituiscono una
responsabilità primaria delle istituzioni pubbliche delle società d'accoglienza, pur potendo coinvolgere anche forze sociali e attori della società civile. Non sono tuttavia automaticamente in grado di generare effettivi processi sociali di integrazione, molto più complessi e legati all'intervento di una molteplicità di fattori, come il funzionamento del mercato, il protagonismo delle società civili, la coesione e l'iniziativa delle popolazioni immigrate, che vanno ben al di là del raggio d'azione della politica” (Ambrosini 2010, 131-132).
I migranti esistono nella lorochiara fisicità di tutti i giorni, sono presenti nelle strade, lavorano alnostro fianco, imparano la nostra lingua e tifano la nostra squadra. Aprono
negozi in cui prima o poi entreremo, cucinano pizze nei ristoranti dove andiamo
abitualmente. E “noi” mangeremo le loro pietanze esotiche, scopriremo che ce ne
sono alcuni simpatici e altri antipatici proprio come lo sono i milanesi, ci innamoreremo
di loro o dei loro figli, dovremo fare i conti con i pregi e i difetti delle loro culture e infine andremo ai loro funerali, capendo grazie a una lacrima quanto gli volevamo bene.
L'incontro reale, fatto di sguardi dritti negli occhi, è uno degli strumenti più importanti che abbiamo a disposizione nella lotta contro la paura del diverso, perché se è vero che solo nella morte di un altro diverso da noi possiamo provare quello shock che ce lo
fa sentire uguale a noi stessi, e se è ancora più vero che “gli occhi di un morto possono gridare riconoscimento con più forza degli occhi di un vivo (Salvador, Denunzio 2019, 13), è anche vero però che nella vita di tutti i giorni la morte dell'altro è oscurata, è stata relegata a luoghi prestabiliti ed asettici, per cui dobbiamo auspicare che l'incontro con gli occhi dell'altro avvenga quando è ancora in vita, per quanto questo sguardo possa essere strano e ambiguo. Dobbiamo far sì che l'incontro avvenga mentre gli occhi sono ancora umidi di vitalità perché la morte avviene lontana e in luoghi appartati, secondo il ben noto processo di igienizzazione della morte analizzato daElias (1985) e Glaser e Strauss (1965).
I migranti muoiono in mare, ma non li vediamo morire. Muoiono dunque astrattamente.
I migranti muoiono nelle notizie dei Tg o nei post dei social, ma non li vediamo mai morire realmente nella loro individualità bensì sempre e soltanto sotto forma dell'idea di migrante che ci siamo fatti. Muoiono dunque mediaticamente.
I migranti muoiono in Italia ma non muoiono nelle piazze perché in questo paese non hanno spazio da persone figuriamoci se potrebbero averlo come detentori di alcuni diritti, il diritto per esempio di praticare i riti funebri della propria tradizione, davanti a
tutti e con dignità. Muoiono dunque in disparte e subito ripartono conla loro bara per il rimpatrio della salma.
I migranti muoiono ogni giorno, ma non muoiono nelle nostre stanze, lo fanno negli ospedali. Muoiono dunque igienizzati.
I migranti muoiono nel deserto o nelle carceri della Libia dove non ci sono telecamere, ma solo occhi disumani che non guardano più niente. Muoiono dunque in silenzio, come gli animali nel bosco.
Dopo tutte queste non-morti va afinire che crediamo davvero alle favole per cui i migranti non muoiono mai, come si sostiene che facciano i cinesi, ma solo perché siamo ignoranti: ignoriamo, non sappiamo, non lo abbiamo mai visto, non li abbiamo mai incontrati. E accusiamo gli altri di colpe assurde, li rendiamo protagonisti di
stupide leggende metropolitane.
Così non può essere: non dobbiamo attendere le politiche d'integrazione, ma affidarci ai processi integrativi. In questa fase storica la politica è troppo attenta al consenso sui media per rendersi conto che è solo tra le persone e nelle strade che si muove la vera
salvezza e la vera politica. La politica vive anche lei, più di ogni altro, la sua stanza dell'eco. Invece ogni incontro che si verifica nelle piazze e a tu per tu con l'altro, con il suo idioma, volto, sguardo e modi di fare, è un piccolo mattone per la costruzione di una società più normale, al di là delle allucinazioni collettive o del singolo impazzito. L'incontro non è mai pacifico, va ricordato, ma ricco di malintesi e problematiche (La Cecla 2009), è una strada da seguire fino in fondo, senza alcun tipo di idealizzazione,
negativa o positiva. Esistono strane diffidenze, non solo da parte della società di accoglienza, ma perfino da parte di chi è immigrato. Esistono perfino diffidenze e discriminazioni tra immigrati, tra colori della pelle leggermente diversi. Chi pensa che l'incontro con l'altro parta immediatamente da un abbraccio non ha capito nulla né dell'altro né di se stesso. Un abbraccio va conquistato, contestualizzato, arriva sempre alla fine di un processo difficoltoso. D'altronde non ci si abbraccerebbe se prima non si è stati in qualche modo distanti.
Alla politica possiamo chiedere poco e quel poco dev’essere anche semplice. Probabilmente dobbiamo suggerirglielo noi perché da sola non sembra capace di arrivarci. Si potrebbe chiedere per esempio che i cimiteri non siano, almeno per una volta, il riflesso della disuguaglianza della città dei vivi, ma che almeno in essi si rispecchi quell'unica appartenenza al genere umano che tutti abbiamo, al di là del
passaporto e delle differenze che ci contraddistinguono come individui. Si
potrebbe chiedere, per esempio, che i cimiteri ospitino sempre di più,
mischiati agli italiani, anche gli stranieri. Così forse quando andremo a
piangere sulla tomba dei nostri cari (sempre sperando che anche questa pratica
non scompaia del tutto dalle nostre esigenze più intime) avremo la fortuna di
incontrare il figlio o il parente di un defunto straniero, che come noi si è recato quel giorno lì a pregare. Incontrando i suoi occhi umidi di lacrime come i nostri, forse, riusciremo a intuire che siamo tutti sulla stessa barca, prima che il Titanic colpisca, nella notte delle coscienze, l'ultimo iceberg rimasto nel mare.
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[1] La concezione classica della percezione sostiene che essa sia una sorta di finestra aperta sulla realtà e che al soggetto non resti altro che percepirla tramite i sensi, per ricrearla poi come doppione nella sua mente. Oggi però si fa strada una nuova visione, chiamata macchina della previsione, per la quale i segnali dei cinque sensi funzionano soprattutto per trasmettere errori di previsione del cervello, dopo che esso ha generato una propria realtà basata su esperienze precedenti. In questo modello la percezione è definita un’allucinazione controllata (Seth 2019).