…e a un tratto della nostra Storia qualcuno trovò il Bastone del Racconto. Fu una vecchia donna chiamata Erranza, in un giorno così lontano nel Tempo, ma così lontano, che in effetti è la prima cosa che si sappia del Mondo. Erranza stava andando a caccia con gli altri della sua famiglia, nelle fredde e nebbiose terre di Noum, quando si sentì terribilmente stanca. Disse a sé stessa: “Se soltanto ci fosse qualcuno dei miei nipotini potrei raccontare a loro della mia stanchezza, invece che ripiegarmi sui miei stessi dolori e rimanere indietro dal gruppo”. Ma gli altri erano tutti febbrilmente presi dall'eccitazione della caccia ed Erranza si ritrovò sola in una radura tra i faggi. A terra, sotto al marrone delle foglie, c'erano tanti rami sparsi. Uno di essi la guardava di sottecchi, con i suoi grandi e spalancati occhi neri, due nodi alla fine di un corpo affusolato e dritto, alto proprio quanto uno dei suoi nipoti. Lo tirò fuori dalla coperta di fogliame frusciante e ci si appoggiò soddisfatta.
Erranza teneva sempre con sé quel bastone, in ogni momento della sua giornata, e non se ne separò mai, perfino quando non riuscì più a camminare. La sera, quando si completava il cerchio di amici e di parenti attorno al fuoco, si sedeva per terra facendosi aiutare dagli altri e cominciava a raccontare, tenendo stretto il suo bastone di faggio che le infondeva serenità e scioltezza di parola.
Raccontava storie antiche, di quando era giovane e faceva tuffi dalle cime delle cascate o di quando s'innamorò di suo marito perché era l'unico tra gli uomini che credeva di poter diventare amico dei lupi. Erranza non raccontava solo i fatti della propria vita, raccontava anche di luoghi lontanissimi e bellissimi di cui altri anziani le avevano raccontato, dove i prati erano di un verde accecante e gli alberi popolati da uccelli dai colori sgargianti. I racconti di Erranza piacevano tanto ai bambini, l'avrebbero ascoltata per giorni, rapiti dalle sue parole, sentendosi trasportati in un altro tempo. Facevano molte domande e le risposte davano la possibilità a Erranza di approfondire alcune vicende e spiegare gli intrecci più complicati. Spesso intervenivano anche altri adulti, aggiungendo particolari che Erranza non ricordava o che non conosceva. Le sere passate attorno al fuoco divennero un coro di voci, una festa di ricordi, una gioia per le orecchie di tutti. Uomini e donne vivevano sereni, lasciando librare verso l'alto le parole delle loro vite come scintille di fuoco nel buio della notte. Il Bastone del Racconto operava allo stesso modo nel buio, senza che nessuno lo sapesse, silenzioso come l'aria che avvolge gli astanti, in perfetta armonia con l'animo dei presenti. La concordanza tra vita e racconto era così naturale che nessuno si poteva accorgere dei suoi poteri straordinari.
Quando Erranza morì il bastone passò di mano in mano, di racconto in racconto, per molte generazioni, fino a che non si ritrovò a servire le stanche membra di Lontano, un vecchio viaggiatore solitario che nella sua vita era stato più tempo via che al villaggio. Lontano raccontava in modo buffo, divertente, facendo ridere chiunque l'ascoltasse. Raccontava di avventure emozionanti e di incontri straordinari, al confine tra realtà e immaginazione. Tutti stavano a bocca aperta, estasiati, incantati e trasportati in quell'altrove dove solo lui era stato, ma che adesso diventava presente e visibile a tutti.
Lontano, una sera, raccontò di uno dei suoi vagabondaggi, nel sud più a sud che si conosceva, e a un tratto disse, aprendo gli occhi e muovendoli nelle orbite come due noci in una ciotola: “Dal basso cespuglio nella sterminata prateria saltò fuori un leopardo gigante, ma senza le macchie sul corpo e con due zanne così lunghe, ma così lunghe, che ognuna era lunga come questo bastone!” e nel dire così mostrò a tutti la misura di cui stava parlando.
Tutti i presenti sottolinearono quelle parole con un “ooooooh” di meraviglia, ma nel cerchio di ascoltatori c'era anche un certo Dubbio, un tipo un po' troppo serioso, ma dotato di grande intelligenza. Andare a caccia con Dubbio o senza di lui non era la stessa cosa, con lui si era più precisi e si facevano molti meno errori.
Dubbio pensò: “Che succede oggi? Perché non me la sento di credere? Zanne lunghe come bastoni… e se non fosse vero?”.
Lontano però continuava il racconto, gesticolando e fendendo l'aria con il suo bastone, mentre tutti quanti pendevano dalle sue labbra. Dubbio allora li guardò tutti, sperando di incontrare nei loro sguardi le sue stesse perplessità, ma gli occhi dei suoi amici erano fissi sulle parole di Lontano e solo da quelle si lasciavano rapire.
Quella notte si sdraiò nel suo giaciglio con l'anima in subbuglio.
Ma il giorno dopo provò a parlarne con qualcuno.
“Non sembra strano anche a te che possano esistere dei leopardi senza macchie?” chiese a uno del villaggio ma questo lo guardò interdetto come se non comprendesse proprio il senso di quel che gli stava chiedendo. Andò da un altro e gli disse: “Zanne lunghe come rami... non gli crederai, vero?”, ma anche quest'ultimo si limitò a fissarlo senza proferire alcunché. Allora Dubbio si piazzò al centro del villaggio e urlò a tutti la sua incredulità. Eppure per la terza volta non ottenne risposta, né comprensione. Tutti i suoi amici, tutti i parenti, lo guardavano esterrefatti. Sembravano un branco di cerbiatti dagli occhi neri e spalancati, impenetrabili. Dubbio guardò a terra e sbuffò per lo sconforto. Nessun uomo si era mai sentito a quel modo e lui per primo sperimentava una sensazione nuova e terribile. Dunque si guardò attorno stancamente e vedendo Lontano uscire dalla propria capanna ci si gettò addosso strappandogli il bastone dalle mani. Assunse la sua stessa postura, cercando di imitarlo, e parlò facendogli il verso, muovendo gli occhi come i suoi.
“Sono Lontano” diceva, “e in uno dei miei lunghi viaggi mi ritrovai in un posto... così... così...”, ma non sapeva che dire, che escogitare. D’altro canto era la prima volta che qualcuno inventava una storia dal nulla, senza un fatto vero come punto di riferimento, e così cercò l'ispirazione nella prima cosa gli capitasse sott'occhio, ovvero i capelli biondi di un bambino lì vicino. Disse: “Mi ritrovai in un posto... giallo!”.
Il suo intento era quello di far capire agli altri l'assurdità della situazione, ma gli altri cominciarono a disporsi naturalmente in cerchio, come sempre facevano quando qualcuno iniziava a raccontare. Dubbio voltò lo sguardo verso Lontano per capire se almeno lui afferrasse il senso di quel che volesse dire, ma anche Lontano sembrava sinceramente interessato. Tutti non aspettavano altro che Dubbio continuasse. Una bambina chiese: “Giallo come il sole? O come il fiore di iperico?”.
Dubbio si sentiva così solo. Da una parte c'era lui e dall'altra, infinitamente distanti, i suoi compagni di vita. Strinse nel suo pugno il Bastone del Racconto e cercò attorno a sé ancora altri spunti per continuare la storia, non già in fondo al cuore come sempre si era fatto. Vide così un montarozzo brulicante di formiche e pensando che più sarebbe stato assurdo quello che raccontava meglio avrebbero compreso, raccontò quanto segue: “Era un posto giallo come la sabbia… anzi… completamente ricoperto di sabbia gialla e calda come la fiamma più bruciante, dove gli uomini non vivono come noi, alla giornata, ma conservano il cibo in cunicoli come fanno le formiche. E sono tantissimi, che i numeri non bastano, e costruiscono montagne di sabbia e roccia con la punta rivolta verso il cielo...”.
A quel punto tutto il villaggio esplose in un'esclamazione di stupore come se un fulmine avesse colpito lo spiazzo e ognuno cominciò a fare i bagagli per partire, alla ricerca di quel popolo così straordinario. L'esaltazione generale travolse Dubbio, che non si capacitava.
“Che fate?” gridava, “Dove andate? Perché prendete le poche cose che avete e vi predisponente a partire?”.
Stravaganza lo afferrò per le spalle e lo baciò sulla bocca. “Dubbio caro, quello che ci hai raccontato è così... così...” ma non trovò le parole, “mi sento l'anima in tempesta, non vedo l'ora di partire!”.
Dubbio si adagiò a terra lentamente, esterrefatto, ma quando vide la schiena dell'ultimo della fila sparire nel folto della foresta raccolse il bastone e si adoperò anche lui per partire, perché una cosa è rimanere soli nell'anima, una cosa è rimanerci sul serio e per sempre.
Il viaggio durò due, tre, quattro stagioni; poi ancora altre quattro e una manciata di giorni, finché dall'alto di una rupe tutta la famiglia vide il leopardo senza macchie e con le zanne lunghe come bastoni abbeverarsi nelle acque di un fiume alla rosea luce del crepuscolo.
“Eccolo” disse Lontano, “ora lo vedete anche voi”.
Dubbio non credeva ai suoi occhi. Si sentiva nel cuore la colpa mortale di non aver creduto. Allora chiamò a raccolta tutta la famiglia e disse: “Amici, quel giorno in cui vi parlai del Regno degli Uomini Formica, quelli che conservano e mantengono il cibo in appositi magazzini e costruiscono montagne rocciose con la punta verso il cielo...” ma non riuscì a finire la frase che Lungimiranza lo interruppe con un'esclamazione.
“Siamo arrivati!” gridò, “laggiù, grazie alla luce trasversale del tramonto, riesco a vedere le costruzioni di cui ci hai parlato quel giorno!”.
Dubbio si fece largo tra la folla, fin sul ciglio del precipizio. Davanti a lui si stendeva una pianura di sabbia ondulata come le onde dell'acqua e in lontananza si distinguevano nitide le forme triangolari di giganteschi edifici umani. Tutti si strinsero attorno a quella vista, piangendo dalla gioia, mentre il ruggito della tigre dai denti a sciabola riecheggiava nel cielo della sera.
Raggiunsero quella città e si inoltrarono nella selva di corpi che pullulava per le strade come se fossero la corrente di un fiume che entra nel mare. Non erano abituati a quel frastuono, a quella calca, a confondersi nella moltitudine della folla. In poco tempo si dispersero tutti, dal primo all'ultimo, senza più avere la possibilità di rincontrarsi.
Dubbio vagava disperatamente per la città, nei vicoli e per le piazze del mercato, sotto al tempio e lungo le mura del palazzo reale, conoscendo per la prima volta povertà e miseria, ingiustizia e sottomissione, gridando i nomi dei suoi parenti, ma non riuscì nemmeno a sentire la propria voce, né mai più a trovarli.
La notte era fonda e notte fonda era anche nella sua anima. Un grande peso lo schiacciava a terra e Dubbio si accasciò vicino a una mendicante. Appoggiò la testa sulla sua pancia perché così era solito fare con i suoi familiari quando si sentiva triste, ma la mendicante lo scacciò malamente. Si chiamava Bile e nella vita aveva sofferto e basta.
“Cosa fai!?” lo sgridò, “Non vedi che aspetto un bambino?”.
Dubbio si scusò, poi la guardò negli occhi. Per quanto adirati erano pur sempre gli occhi di un essere umano e lui moriva dalla voglia di confidarsi. Bile se ne accorse e astutamente gli disse di raccontare, sapendo che quando il cuore degli uomini è debole ci si può solo che guadagnare. Allora Dubbio si lasciò andare al pianto e prendendole la mano le disse: “Ho mentito ai miei cari inventando un regno che non esiste, perché non credevo. Ma quel regno esiste ed è questo, dove ora li ho persi”.
Bile chiese: “Quindi sei stato tu a inventare questo regno? E come avresti fatto, con la magia?”.
“Non lo so” rispose Dubbio, “so solo che ho preso questo bastone qui, l'ho alzato al cielo e ho descritto questa città, poi siamo partiti e l'abbiamo trovata esattamente come io l'ho descritta”.
Bile, che non aveva nulla da perdere nella vita, afferrò il bastone e si alzò in mezzo agli straccioni di quel misero quartiere, chiamandoli a raccolta. Era così sporca e sudicia che di lei si vedevano solo gli occhi scintillanti nelle tenebre.
“Ascoltatemi, ascoltatemi tutti!” disse, “Io vivo in un mondo di immondizie umane. Io stessa sono un rifiuto, come tutti voi, ma grazie al potere di questo bastone sarò la Regina del Regno!”.
Seguì il silenzio. Non accadeva nulla. Poi dal fondo irruppe una risata, che man mano diventò generale. Anche Bile cominciò a ridere e gettando il bastone in una discarica disse a Dubbio: “Ora vattene via, tu e le tue stupidaggini. È stato solo un caso”.
Dubbio se ne andò via sconsolato. La tristezza era la sua ombra che lo seguiva alla luce delle torce dei vicoli della città. Aveva perso tutto quello che aveva di più caro al mondo e si ritrovava in un mondo ostile. Sentendosi così malvoluto e solo, in un attimo di disperazione s’impiccò al primo albero che incontrò, mentre il sole albeggiava. I corvi si cibarono del suo corpo appeso finché non ne rimase nulla, dopodiché volarono in cerchio sugli edifici di pietre gracchiando forte come mai avevano fatto, e tutti gli abitanti della città provarono una paura recondita e inspiegabile.
Passò del tempo e Bile, sentendo che le doglie si facevano sempre più forti, capì che il momento stava per giungere, stava per nascere suo figlio. S’incamminò per le vie della città in cerca di aiuto, ma tutti la scacciavano. Si ritrovò così fuori dalle mura, a partorire da sola appoggiata con la schiena al tronco di un albero, aggrappandosi a una corda che penzolava da un ramo. Nacque una bella bambina dagli occhi chiari e buoni, ma nel preciso istante in cui venne alla luce un soldato tagliò il cordone ombelicale con la spada, gliela strappò di mano e la portò via con sé, mentre Bile urlava di dolore e allungava inutilmente le dita verso quella figura che spariva nella nebbia.
Il soldato attraversò tutta la città ed entrò nel palazzo reale da una porta segreta, poi salì alcune scale buie che lo fecero sbucare nella sala dove la Regina del Regno aveva appena messo al mondo una bambina, ma priva di vita.
Il giorno in cui la Principessa divenne maggiorenne la Regina volle presentarla a tutta la popolazione, in una cerimonia ricca di gioia e festeggiamenti. La Principessa avanzava nelle vie seguita dai cortigiani, bella come la giovinezza e pura come l'ingenuità, in un giorno di primavera in cui gli uccelli cantavano e giocavano felici nel cielo azzurro.
Tra la folla, ad acclamare la Principessa, c'era anche Bile, ormai vecchia e prossima alla morte. Appena la vide ebbe un sussulto nel cuore e capì cos'era accaduto. Senza pensarci due volte tornò nel quartiere dove viveva e rovistando nell'immondizia trovò il bastone che aveva buttato tanto tempo prima. Lo alzò e lo portò al suo petto, felice come non mai, dopodiché si diresse sotto le mura del palazzo, in un punto dove la Regina passava sempre, nella speranza che da quel giorno in poi sarebbe passata di lì anche la Principessa. E così in effetti fu. La Principessa, ritornando la sera a palazzo dopo la visita ai bisognosi, passava sempre accanto a Bile che, seduta a terra come una stracciona, chiedeva l'elemosina. Ogni volta che i loro sguardi s’incrociavano Bile le sorrideva amabilmente, come solo una madre saprebbe fare. La Principessa ne era sempre più attratta, così un giorno si fermò e ordinò a uno dei soldati di lasciare qualche moneta. Bile ringraziò e le fece cenno di avvicinarsi. L'oltraggio era tale che il soldato già sguainava la spada, ma la Principessa intimò di lasciar stare e si inginocchiò accanto alla mendicante. Bile le prese la mano e le consegnò il Bastone del Racconto, sussurrandole: “Usa questo bastone per parlare al mondo. Quello che dirai si esaudirà nel tempo, con calma e pazienza, trasformando le cose secondo le tue parole”.
La principessa era incredula, ma la stretta della mano della vecchia era così calda e benevola che in qualche modo ne fu colpita.
“Fai come ti dico” continuò Bile. “Figlia mia, fai come ti dico…” e nel dire così lasciò scivolare via la mano rugosa da quella garbata della Principessa. La Principessa si ritrovò il bastone in pugno e confusa ma pervasa da uno strano senso di libera possibilità, ritornò nella solitudine e nel silenzio delle proprie stanze.
Volle provare. Quando la Regina morì e la Principessa ereditò il suo potere si presentò alla folla dal balcone del suo palazzo con il bastone in mano e parlò con gentilezza e bontà di un mondo più giusto e comprensivo. La Principessa si rese conto che col passare del tempo i suoi discorsi arrivavano al cuore della gente, ma anche a quello dei soldati o a quello dei suoi cortigiani, rendendoli più accoglienti. Il suo fu un regno di pace, in cui ognuno ottenne dalla vita qualcosa di valido per cui vivere e morire, in cui i figli vissero meglio dei padri e in cui quest’ultimi lasciarono il mondo con il sorriso sulle labbra, ricordando con gioia le tante frasi dei discorsi di Grazia, che parlavano di amore tra le genti e solidarietà tra i popoli. Fu così che la chiamarono la Regina della Grazia.
Grazia si sposò una volta sola ed ebbe solo un figlio al quale, quando fu maggiorenne, spiegò il potere e la responsabilità del Bastone del Racconto, chiedendogli di fare lo stesso quando avrebbe avuto anche lui un figlio, e così via, per il resto del tempo che all'umanità sarebbe toccato di vivere.
Ma dopo molte generazioni in cui tutto andò come lei aveva desiderato e il mondo era diventato un posto migliore, un servitore di palazzo ascoltò il racconto segreto che i reggenti si passavano di padre in figlio e invidioso volle impadronirsi del Bastone, per cambiare le cose a suo favore. Si chiamava Io e una notte d'inverno lo rubò da sotto il cuscino del Re, da cui uscivano solo bei sogni, per partire verso nuove terre e fondare un nuovo regno.
Tutto andò come lui voleva. Gli bastò radunare un gruppo di persone nel deserto, parlare a loro con rabbia e risentimento di un luogo dove sarebbero diventati ricchi a discapito di altri e in breve tempo queste aspirazioni si realizzarono, dando vita a una nuova società fondata sull'egoismo. I suoi soldati erano spietati, la sua gente inferocita. Consideravano nemici tutti coloro che non facevano parte della loro cerchia. Ma Io cominciò ad avere paura per sé stesso perché i suoi uomini avrebbero potuto tradirlo per prendere il suo potere. Era dunque costretto a parlare ogni sera al popolo con collera sempre più grande, per convogliare la furia su qualcun altro e distrarli. Si chiedeva infatti: “Cosa faranno quando non ci sarà più nessuno tranne me da odiare?”.
Ma per ora qualcun altro da odiare c'era e così la sua gente gli chiese a gran voce di invadere e distruggere il regno del Re. Anche Io lo voleva con tutto il cuore perché conquistando quei territori sarebbe diventato il dominatore incontrastato di ogni terra, dunque si dimenticò persino della sua paura più recondita, accecato dalla bramosia di potere.
Il regno del Re, dopo molti di anni di battaglie, di sangue e di esasperata ferocia, fu vinto e Io divenne l'uomo più potente che fosse mai esistito. Invano il Re aveva chiesto la pace perché dall’altra parte c’era Io, con il Bastone del Racconto, che voleva solo la vittoria. Eppure, proprio come Io aveva intuito, i suoi uomini, che sapevano solo odiare e amare sé stessi, appena non ci fu più nessuno da combattere cominciarono a volerlo morto a tutti i costi e lui fu costretto a barricarsi nella stanza più alta della torre più alta del suo castello più grande. I corvi volavano attorno alla sua dimora come uccelli del malaugurio e Io piangeva di terrore immaginando quel che gli sarebbe toccato in sorte da lì a poco. Alcuni uomini si arrampicarono come lucertole sulla torre per acciuffarlo e buttarlo di sotto. Allora Io prese il Bastone e affacciandosi dalla finestra, in un momento di rara debolezza e sincerità, esplose tutta la sua frustrazione alla sua gente.
“Cosa volete da me?! Non è giusto quello che accade. Come vorrei non essere stato soltanto io a possedere questo bastone maledetto, come vorrei che tutti voi poteste esaudire i vostri desideri parlando! Troppo potere nelle mani di una sola persona è un fardello assai pesante da portare!”.
Ma ormai era tardi e appena i primi demoni arrivarono a lui subito lo fecero volare nel vuoto, seguito dal suo bastone. Poi quando quegli ossessi se lo furono mangiato per intero, non sapendo più chi odiare, cominciarono a odiarsi a vicenda, dando il via a un periodo di anarchia e caos, in cui ognuno badava solo a sé stesso, rinchiuso in grotte o in tunnel scavati sotto terra.
Ben presto, per paura, si isolarono l'un l'altro, vivendo in solitudine, una solitudine infinita. Gli uomini non erano più uomini, ma morti viventi.
Nel frattempo le parole che Io aveva pronunciato prima di morire agivano nel buio, tant’è che Luce di Candela, una donna sola come una talpa ma desiderosa del prossimo come non ce n'è mai stata nessuna al mondo, fu spronata dalla solitudine che le mordeva lo stomaco a fare una cosa folle. Aveva così tanta voglia di parlare, di esprimersi, di condividere quello che aveva dentro, che afferrò un bastone da terra e ne staccò una scheggia. Poi si punse un dito e usando la scheggia a mo' di bastoncino raccolse una goccia di sangue e disegnò un punto rosso sul muro. Raccolse altro sangue e aggiunse un secondo punto a poca distanza dal primo, poi fece una linea curva, disegnando così un volto che rideva. Guardando negli occhi quel volto dipinto sul muro Luce di Candela si sentì d'un tratto meno sola e le venne voglia di parlare a quel viso. Parlava, parlava, parlava, ma il volto non rispondeva mai. Allora capì che la cosa non l'avrebbe portata molto lontano dalla sua solitudine e raccogliendo altre immondizie nel fondo della grotta disegnò con il sangue un altro volto che rideva, ma su una carta straccia. Poi lo guardò e sentendosi di buon umore si spinse fino all'ingresso di un'altra grotta dove sapeva che viveva una persona. Lasciò lì sulla soglia dell'ingresso sia il disegno che un altro bastoncino e scappò via. Quando tornò a controllare trovò una bella sorpresa: accanto al primo viso sorridente ce n'era un secondo. Luce di Candela era fuori di sé dalla gioia. Raccolse tutto quanto e diede il via a una lunga corrispondenza con quella persona sconosciuta.
Col passare del tempo i disegni si facevano sempre più precisi e articolati, sempre più vari e particolareggiati, fino a che Luce di Candela e l’altro disegnatore segreto non si accordarono per un alfabeto condiviso, fatto di simboli, che permetteva loro di comunicare anche i pensieri più intimi e sfaccettati. Le carte scritte col sangue divennero lettere tra amici, e infine i due decisero di incontrarsi di persona.
Quando Luce di Candela la vide spuntare dalla roccia al principio vide solo due occhi nel buio, timorosi come due stelle tra le nubi di un temporale, ma poi vide anche un grande sorriso che si apriva la strada nella diffidenza. Le due amiche si abbracciarono e trascorsero molti anni a raccontarsi quello che provavano.
Quando però fu chiaro che i loro giorni stavano per finire e che quello di bello che era successo tra loro sarebbe sparito nel dimenticatoio, ebbero un'idea: presero quel bastone dal quale Luce di Candela aveva ricavato i due bastoncini per scrivere e lavorandolo con cura e amore vi ricavarono altri 97 bastoncini; 99 bastoncini in tutto da regalare a 99 persone. Scrissero su altrettanti fogli le istruzioni per comprendere l'alfabeto che avevano inventato, associando a ogni parola il significato sotto forma di disegno, dunque di emozione. Fu un'opera immane, mai tentata prima, ma le due amiche erano felici e l'entusiasmo per il grande compito che si erano prefissate conferì loro la forza e l'intelligenza per portarlo a termine.
Quando tutto fu pronto consegnarono i 99 bastoncini e le 99 istruzioni davanti alla soglia di 99 grotte e se ne tornarono a casa a morire, felici.
Piano piano, lentamente, 99 mani uscirono dal buio e raccolsero il materiale. 50 di queste riuscirono a decifrare l'alfabeto e scrissero delle lettere ad altri indirizzate, ragionando di sé stesse e scrivendo di un mondo che ancora doveva venire. Per fortuna 26 su 50 erano degli ottimisti fiduciosi negli altri e così, nel tempo, pazientemente, il mondo divenne di nuovo un posto sicuro dove poter abitare. Le persone uscirono dalle tane e costruirono case, poi continuarono con mulini, chiese e strade per collegare gli uomini. I 99 bastoncini vagavano liberamente per il mondo all'insaputa di tutti, diventando penne per inchiostri che scrivevano leggi, racconti e pensieri. Ognuna cambiava il mondo secondo quanto scrivesse, in un gioco delle parti in cui nessuno scritto prendeva mai il sopravvento sull’altro. Si distribuirono così in maniera omogenea per tutta la Terra senza che nessuno ne avesse intenzione, come fenomeno naturale, come luce, pioggia, uccelli. Piano ma inesorabilmente rendevano reale ciò che gli uomini scrivevano, fossero paure o speranze, incubi o sogni. A volte operavano come forze in sinergia tra loro, altre volte in opposizione, esaudendo così quell'ultimo desiderio di Io, espresso nel momento più alto della sua terrificante consapevolezza di quel che avesse fatto da solo con un unico ed egoistico racconto.
Passarono gli anni e divennero secoli, le storie che le 99 penne scrivevano si intrecciarono così tanto tra loro che ormai era impossibile distinguerne la trama, come in un cespuglio di rovi. Erano così tanto collegate e fuse insieme in un unico filo narrativo che il mondo assomigliò a un grande gomitolo di racconti, colorati e indissolubili, che si supportavano a vicenda.
Ma un giorno nacque un tale di nome Studioso, così acuto e perseverante, così testardo e preciso, che si mise in testa di districare quel gomitolo riportando tutti i fili alla loro originaria semplicità. Studiò le leggi, le narrazioni e le vicende storiche di tutti i popoli di tutto il mondo, per anni e anni, perdendo la vista e la salute; analizzò le correnti dei fatti e le isolò tra loro, capendo il senso di come si erano sviluppate e modificate nel tempo, fino ad arrivare alla conclusione che esistevano ben 99 centri di produzione di storie, che collocò geograficamente nel mondo. Pubblicò un tomo dove esponeva questa grandiosa teoria e lo stampò in molte copie. Ebbe un grande successo, ma il libro era così lungo e difficile che solo in pochi riuscirono a leggerlo fino in fondo, in pochissimi a capirlo. Tra questi una donna di nome Ricerca, che volle provare a comprendere cosa c'era veramente dietro la grandiosa visione di Studioso. Così si mise in cammino e si recò nei luoghi che lui aveva identificato come possibili centri di creazione di storie. Parlava con le persone, analizzava i documenti, cercava gli indizi di cosa potessero essere questi fantomatici “centri” e alla fine constatò che nelle prossimità di ognuno di essi c'era sempre una penna, che nel mondo c'erano 99 penne dall'inchiostro delle quali si generavano storie capaci di cambiare il flusso delle cose. Ricerca era stupefatta. Una simile scoperta l'avrebbe resa di certo ricca e famosa, ma poi capì anche la pericolosità di quello che aveva scoperto e preferì non dire a nessuno dei risultati a cui era arrivata.
Ricerca custodiva un incredibile segreto nel cuore, ma non poteva condividerlo con nessuno per paura dell'uso che se ne sarebbe fatto. Ed è per questo, proprio come è successo ad altri personaggi di queste righe, che Ricerca si sentiva sola, una solitudine che le uccideva l'anima. Resistette e non pubblicò mai quei fogli, ma nemmeno li distrusse, anzi li raccolse in una cartellina. Sulla prima pagina scrisse: “Mannaggia a chi legge!” e li custodì in un cassetto della sua scrivania, in cui rimasero per anni senza che nessuno osasse sfidare quel monito.
Ma il tempo scorre, scorre sempre, va avanti e basta, e quello che sembra difficile alla fine, a lungo andare, diventa probabile e poi addirittura inevitabile. Ad aprire quel cassetto fu un uomo che si chiamava Mannaggia, mentre cercava le chiavi dell'auto della moglie, che tra l'altro erano proprio sotto quei fogli. Mannaggia era una persona buona, ma se lo avevano chiamato così ci sarà stato un motivo, dunque lesse tutti quei fogli e disse: “Sarebbe bello collezionare tutte le penne di cui si parla in queste pagine”.
Altro non c'era da dirsi. Mannaggia, mannaggia a lui, passò dalle parole ai fatti e guidando l'auto della moglie si recò in tutti i 99 posti dove sarebbero dovute stare le penne e con i soldi della carta di credito della moglie le acquistò tutte dai loro proprietari, che difatti le cedettero a poco prezzo, ignari del potere che avessero. Ma Mannaggia, mannaggia a lui, non fece solo questo. Siccome non era dotato dello stesso senso di responsabilità che aveva Ricerca, appena ebbe quel grosso mazzo di penne in mano andò in un parco di Londra, salì su una piccola scala e disse ai presenti: “Queste penne che vedete qui sono le 99 penne...” eccetera eccetera, tutta la storia che già sapete, senza che la stia a raccontare di nuovo... poi concluse così: “Ma io, adesso che sono vecchio e che le ho raccolte tutte, non so più cosa farci. Che ci facciamo?”.
Quelli che erano presenti non sapevano di trovarsi al cospetto di un importante momento storico, tant'è che fecero tutti spallucce. Erano un centinaio di persone di diversa estrazione. C'erano imprenditori, contadini, dottori, bambini, studenti, sportivi. Uno spaccato della società. Una di loro, una bambina di nome Fantasia, propose di mettersi tutti in cerchio sul prato e di prendere ognuno una penna per fare un bel gioco. Era vivace e simpatica, molto autorevole nonostante l'età. Tutti gli obbedirono e sarebbe stato bello, avendo avuto un drone, fare una ripresa aerea di quel grande parco di Londra con sopra disegnato un cerchio fatto di persone in attesa che Fantasia spiegasse loro le regole del gioco.
Quando tutto fu pronto Fantasia disse: “Ognuno di noi ha una penna in mano. Bene. Io ho questo quaderno bianco. Vedete?”.
Tutti risposero di sì.
“Ottimo. Adesso io passerò questo quaderno a turno a ognuno di voi e voi dovrete scrivere un pezzo di una storia a vostro piacimento, ma in modo che si colleghi alla storia precedente, poi dovrete semplicemente leggere agli altri quanto avete scritto. Capito?”.
E tutte le persone dissero di nuovo di sì, che avevano capito.
“Quando le 98 storie da voi scritte avranno composto un unico racconto passerete il quaderno a me, che con l'ultima penna lo completerò, dopodiché il gioco sarà finito. Capito?”.
E tutti risposero di sì, in coro.
E così accadde. La persona incaricata di iniziare fu la più anziana del cerchio, come sempre si usa nei giochi di società, una signora che nella vita aveva studiato i popoli antichi e che dunque pensò bene di iniziare il racconto da molto lontano. Raccontò di una tale Erranza, la quale trovò un bastone di faggio in una radura, durante una caccia. La signora passò la penna a chi le stava accanto e questo scrisse un paio di righe in più, poi passò a sua volta a un altro e così via.
Il decimo del cerchio fu un filosofo un po' puntiglioso, tanto è vero che il suo personaggio si chiamava Dubbio. Dubbio non credeva che i racconti fossero tutti veri fino in fondo e così diede il via a una vicenda che portò i nostri eroi perfino in Egitto, in una specie di esodo dal sapore biblico.
La quindicesima persona del cerchio era una ragazza molto idealista, una giovane studentessa di lettere che scrisse alcune righe su di una regina chiamata Grazia, che... ma è inutile che io ripercorra di nuovo tutta la storia che già conoscete. Lo avete capito benissimo da soli che il racconto si sta avvitando su sé stesso e che quello che state leggendo altro non è che la storia scritta da quelle 99 persone che con le loro 99 penne che discendono dal Bastone del Racconto, stanno scrivendo in cerchio sul prato di questo parco di Londra. E avrete di sicuro anche capito che in questo momento a scrivere è proprio Fantasia, cioè io, l'ultima del gruppo, e che perciò il racconto volge al termine perché a me è affidato il compito di scrivere le ultime parole...
Ma aspettate... cosa succede adesso? Chi è quel bambino fuori dal cerchio che ci guarda arrabbiato? Ah, sì! È Sgrammaticato! Povero Sgrammaticato, si sente escluso, ognuno ha una penna e lui, che è il centesimo del gruppo, no. Vieni qui Sgrammaticato, vieni, prendi in mano la penna insieme a me, scriviamo il finale...
E in fatti sgrammaticato si avvicina e prende la penna di Fantasia, ma poi passò a prendere la penna dalle mani della persona che gli stava a canto e così fino a raccoglierle tutte le 99 penne in un bel ciuffo. Poi le misse tutte al centro del cerchio, usandole come bastoncini, luna accatastata all'altra. Appiccicò una piccola fiamma e le brucio tute, pronunciando queste parole: “Non è belo essere esclusi dal raconto delle cose del mondo. Voi tuti giocate e io ero fuori. È stato bruto. Per questo o dato fuoco a tute le penne, cioè al Bastone del Raconto. Ora il fumo si esce per il mondo e si distribuisce via, così che tuti possano racontare e essere accoccolati nelle parole, e nell'essere accoccolati cambiare, con i propri raconti, il mondo che verrà...”.