Consideravo la mia più grande fortuna quando Maria si scordava di rimettermi nello sgabuzzino. Maledetto, odiato, puzzolente, buio, stretto sgabuzzino. In compagnia di umidi stracci, invadenti sgrassatori, vecchi e induriti lucida scarpe, scatole del presepe con le statuette che russavano tutto l’anno, tappetini arrotolati su loro stessi e specialmente la cassetta degli attrezzi che sferragliava dalla mattina a sera.
La mia seconda fortuna più grande era quando mi appoggiava alla finestra, magari rivolta verso fuori, di modo che potessi contemplare il cielo, la mia passione. Una volta ci ho fatto perfino un sogno: volavo di notte per i tetti innevati del paese, cavalcata, come fossi la puledra di una principessa, da Maria, la mia padrona. Non avevo bisogno di corrente elettrica e avevo il filo libero al vento che Maria usava come lasso per prendere le stelle. Insieme ce la spassavamo salendo e scendendo per le tre dimensioni e il nostro divertimento consisteva nell’aspirare le nuvole dal cielo, per poi lasciare solo la luna a contemplare quell’enorme tavolo sparecchiato.
Eppure questa circostanza capitava di rado, almeno negli ultimi tempi. Era tornata in auge, per colpa della crisi, quella vecchia zitella della scopa di saggina, Gina la saputella che sa tutto lei. Diceva di saperla lunga, e tutti le credevano perché dicevano: “Lo sa Gina, la scopa di saggina”.
Ma a parte queste leggende a cui non credevo perché sono solo giochi di parole, la realtà dei fatti è che Gina lavorava e io no. E come si dice tra noi elettrodomestici: “Il lavoro mobilita” e io quindi non ero più mobile come prima, ma appunto immobile nello sgabuzzino, maledetto sgabuzzino. Ciaf ciaf faceva la Gina, mentre lì si moriva di umidità e frastuono, coi pastorelli del presepe che russavano da dentro la scatola e la cassetta che sferragliava.
Allora io chiudevo gli occhi e sognavo di aspirare a ben altro, ovvero un lucidissimo, grandissimo e liscissimo pavimento di marmo dove scivolavo con grazia e leggiadria, come fossi una pattinatrice sul ghiaccio. Maria mi portava usando un solo dito e mi lasciava girare e rigirare al suono costante del mio perfetto motore elettrico. Ma ci pensava sempre lo sgrassatore a togliermi di dosso quella patina di sogno e a svegliarmi sul più bello. Prima mi accarezzava e poi mi sussurrava: “Dormi, dormi…”. Non aveva cattive intenzioni, nel senso che non avrebbe voluto svegliarmi, ma appena parlava sputava e io mi alzavo di soprassalto. Non era difettoso, sono tutti così gli sgrassatori.
La mia terza fortuna più grande era quando, avendo la pancia piena, Maria mi cambiava il sacchetto. Se solo aveste visto con quale perizia compiva quest'operazione... Io d'altra parte me ne stavo lì abbandonata a me stessa, col collo riverso indietro, spaparanzata. Non mi perdevo nemmeno uno di quei momenti così intimi tra me e lei. Spingeva il bottone, apriva il coperchio e toglieva il sacchetto pieno, facendomi sempre un po' di solletico. Che bello... La sensazione che si prova, ad operazione conclusa, è di estrema leggerezza e libertà. Un senso di rinnovamento fisico e morale. Mi sentivo tutta propositiva, pronta ad accogliere in me qualsiasi difficoltà e a trasformarla in nuova energia. Sarei stata capace dell’impossibile e anche il suono del mio cuore era più allegro e acuto. Ma purtroppo era una sensazione superficiale e col passare del tempo le cose tornavano grigie e stantie come sempre.
La mia quarta più grande fortuna era quando Maria si scordava di staccare il filo e mi lasciava un po' attaccata al circuito della corrente elettrica. Poteva succedere a causa di uno squillo improvviso del telefono o perché era costretta ad uscire di casa di corsa a comprare il pane o il latte prima che l’alimentari chiudesse. In quei frangenti potevo sentire, come fosse un leggero brusio, tutta la presenza della rete energetica mondiale. Un lontano e indecifrabile unico suono, composto però da miliardi di altre voci in caotica polifonia tra loro. Tantissime tensioni che sfrigolavano di improvvisi scatti, comunicazioni, immagini, micromovimenti, che mi proiettavano immediatamente verso la consapevolezza assoluta che qualcosa, oltre questo appartamento e i maledetti inquilini dello sgabuzzino, esisteva, viveva e cambiava, a dispetto della mia sensazione di monotonia giornaliera. Io lo chiamavo: “Il rumore dell'infinito”. Mi sarebbe tanto piaciuto perdermici una volta per tutte, affogare in quel mare… e credo proprio che il naufragar mi sarebbe stato dolce...
Ma perché fino ad adesso ho parlato delle mie fortune al passato, come se fosse successo qualcosa di importante che ha sancito una rottura tra il prima e il poi? Ebbene ho parlato così proprio perché in effetti c'è stato un evento davvero cruciale che ha fatto da spartiacque, tanto che da quel momento in poi io sono un elettrodomestico diverso. E questa cosa è così importante che non solo io sono cambiata, ma cambierà tutto il mondo ascoltando le mie parole, cosa per cui ho preso l'abitudine di scrivere e immortalare la mia storia.
Accadde tutto in maniera inaspettata, una domenica di gennaio. Maria era appena tornata da uno di quei mercatini settimanali in cui si scambiano gli oggetti. Aveva deciso di barattare i tappetini arrotolati su loro stessi, fermi in quella posizione rannicchiata da circa cinque anni, e di portare a casa chissà cos’altro. Noi dello sgabuzzino, quando abbiamo visto Maria scegliere proprio loro ci siamo dati a pianti di tristezza.
“Addio ragazzi!” frignavamo in coro, “Fate buon viaggio, che la fortuna sia con voi”. Ma c'era anche chi scherzava e li prendeva in giro. “Attenti che potreste finire nelle mani di un Aladdin dei nostri tempi, viaggiare così per le vie della seta, vedere posti esotici, abitare in tende con luci soffuse e fumi d'incenso pregiati e, infine, diventare dei tappeti volanti!”. E io nel cuor mio pensavo: “Altro che... come sarebbe bella una cosa del genere...”.
Fatto sta che dopo aver visto partire quei poveri ragazzi, tutti ancora assonnati e provati da anni di scomoda posizione, attendevamo trepidanti l'arrivo del nuovo inquilino. Maria però non portò indietro nessuno e noi rimanemmo al buio per molto tempo. Poi Gina la scopa di saggina un giorno esclamò: “L'ho visto dallo spioncino! Sta lì sulla credenza del salotto! L'ha messo in bella mostra!”.
Facemmo a spinte pur di vedere anche noi e con grande meraviglia dovemmo appurare che Gina aveva visto bene: c'era un nuovo oggetto in casa, tutto lucidato e aristocratico. Una specie di bicchiere per il vino con due ampolle collegate da un'esilissima vita da vespa, rivestito di legno. All'interno delle ampolle un liquido, anzi no un gas, ma che dico... un solido.
“E' una clessidra! Imbecille!” disse Gina, “E quella è sabbia!”.
“Una clessidra? E cos'è?”.
“Calcola il tempo”.
“Come un orologio?”.
“Si ma molto più saggiamente. Per funzionare ha bisogno di qualcuno che la ponga sottosopra”.
Tutto lo sgabuzzino era a bocca aperta. Straordinario. E della stessa opinione sembrava anche Maria, la quale si prendeva cura di lei continuamente, suscitando l'invidia di tutti. Ma il massimo del nostro livore subentrava quando Maria suonava il violoncello (un altro di quelli che solo a pronunciarne il nome noi tutti diventiamo gialli e pieni di astio) davanti a questa benedetta clessidra. Scesa tutta la sabbia si fermava un istante, girava le ampolle e riprendeva a suonare, per ore e ore così. Un intero concerto completamente suonato al suo cospetto, come se glielo dedicasse.
E poi un giorno accadde l'imprevedibile: Maria mi appoggiò accanto alla credenza. La clessidra lasciava rotolare i suoi grani in grande silenzio e io, pur essendo molto restia nel guardarla per prima a causa dei miei orgogliosi pregiudizi, scivolai lo sguardo al suo misterioso incedere, rimanendone a tal punto affascinata che mi sfuggì un'esclamazione.
“Stupenda!”.
La clessidra, dopo un attimo di silenzio, rispose: “Siamo tutti stupendi alla stessa maniera e chi non si stupisce anche della più piccola e insignificante cosa che c'è a questo mondo è solo perché non ha ancora imparato a trovare l'infinito nel microcosmo del mondo. Il movimento che ti stupisce infatti, questo lento muoversi della sabbia nell'imbuto del tempo, è composto da piccolissime e singolarissime parti”.
Parlava con una calda voce dall'inflessione leggermente orientale, con una cadenza precisa, come preciso era lo scorrere del suo sangue di sabbia nell'unica vena che l'attraversava.
“Se dunque ti stupisci di me e della mia fattura perché non riesci a fare altrettanto di te stessa e della tua bellezza?”.
“Io bella?” dissi pensando che mi prendesse in giro.
“Tu sei bella se hai la bellezza nello sguardo. E chi possiede lo sguardo che dona bellezza rende il mondo sempre più bello e luminoso”.
In quel momento venne Maria a prendermi e mi portò nello sgabuzzino. Appena dentro, forse per esorcizzare l'effetto che quelle parole mi avevano fatto, presi in giro la clessidra davanti a tutti, dipingendola come una strana signora new age, poco realista, che si esprimeva attraverso frasi trite e ritrite. Ma in realtà era appunto perché non volevo credere al fatto che il suo tono e la sua personalità mi avevano profondamente colpita. Mi addormentai molto tardi, non riuscivo a smettere di pensarla.
Passarono così dei mesi e io ormai avevo scordato quei fatti, ma quando si ripeté ancora una volta la stessa circostanza e io capitai di nuovo vicina alla clessidra, tutta la forza di quelle emozioni ritornò prepotentemente in me in un solo istante.
Questa volta fu lei a salutarmi per prima e a ricominciare il discorso lì dove si era concluso.
“Colui che è capace di vedere la bellezza del mondo è già un illuminato e la sua luce non è solo interiore, ma si vede dall'esterno. Illumina quindi le cose che lo circondano, che di conseguenza escono dal buio e scoprono di se stesse aspetti che non avevano nemmeno immaginato di possedere. Potenzialità quasi infinite che allargano il cuore e aprono alla speranza. L'onda di luce al principio abbaglia, ma poi l'occhio si abitua e capisce che il miglioramento è più reale e realistico di qualsiasi scetticismo e disillusione a priori. Il futuro prende forma e il passato non è più quella pastoia viscida che ci trattiene e affoga nella stagnazione, ma un ricettacolo di spunti per quel che verrà, un caldo giaciglio su cui addormentarsi prima che il nuovo giorno spunti all'orizzonte”.
Non riesco ora a descrivere correttamente la gamma di emozioni e pensieri che mi attraversarono la mente durante quel discorso. Dirò semplicemente che passai dalla rabbia per il modo supponente con cui mi parlava all'attenzione più estrema, dal considerarle solo assurde parole evocative al trovare in esse un profondo significato personale. Ricordo che blaterai, più o meno, questa domanda: “Per te è facile parlare. Sei un oggetto antico e bello, ma per me per esempio? Sono solo uno stupido elettrodomestico prodotto in serie, che fa sempre lo stesso identico tipo di lavoro, che vive stipato in uno sgabuzzino umido e mal frequentato, che non ha mai visto il cielo se non attraverso i vetri della finestra e che prima o poi, a causa dell'usura o della crisi, dipende da chi si presenterà più rapidamente alla mia porta, sarò portato all'ecocentro per essere smaltito”.
La clessidra fece la sua solita pausa di riflessione, su per giù un centinaio di granelli di sabbia che passarono da sopra a sotto, e poi rispose: “Hai mai guardato sotto i tuoi piedi, l'etichetta posta nella parte bassa del tuo contenitore?”.
“No perché?”.
“Prova adesso”.
Così feci e nell'etichetta trovai scritto: Made in Japan.
“Quindi? Che significa?”.
“La tua provenienza è il Giappone, terra dalla storia millenaria e dalla profondissima saggezza. Luogo abitato da anime indomite e zelanti, scrupolose e allo stesso tempo dall'animo sterminato, che anelano alla perfezione in ogni minimo gesto che compiono e che sarebbero pronte a morire di vergogna se qualcosa da loro creato non fosse degno della cultura che rappresentano o, peggio, arrecasse danno all'immagine divina dell'universo che dovrebbe giacere in ogni piccola opera che vede nuova luce”.
“Dici sul serio?”.
“Dal momento che la tua titubanza ti frena ancora, ti parlerò con un linguaggio che conosci e che forse ti è familiare, benché io non sia avvezza a questo modo così elementare di esprimermi, ovvero il linguaggio del paragone”.
Si fermò dunque un istante poi continuò così: “Sento che nutri un certo amore per la mia figura”.
A quel punto qualcosa in me si ribellò. Come si permetteva? Ma poi compresi che aveva colto il vero e che al vero era inutile ribellarsi.
“Anche io, come te, sono nata in Giappone e di quel paese ho ereditato la meraviglia. Sii fiera come me dunque di te stessa e non abbatterti mai se il cammino verso la perfezione è lungo”.
“Ma rimane sempre il fatto che io e te siamo diverse! Baciate differentemente dalla fortuna!”.
Non ebbi risposta a queste affermazioni perché la sabbia era completamente caduta nell'ampolla di sotto e la clessidra, così come scoprii proprio in quel frangente, poteva parlare solo se questa scendeva.
Purtroppo passarono altre e altre settimane senza che io riuscii a fare nuovi discorsi con lei. Un periodo difficilissimo in cui mi rintanai nel silenzio e nel buio dello sgabuzzino e in cui pensavo e ripensavo continuamente alle sue frasi, parola per parola, visto che mi si erano impresse con estrema forza e precisione dentro. Un periodo durante il quale feci molti incubi, in cui la struttura più intima della mia costituzione divenne incandescente e lentamente collassò. Non erano state tanto le sue massime a stravolgermi quanto la dinamica di cambiamento, forse latente e in attesa di essere risvegliata, che la sua forza espressiva nel complesso aveva innescato in me. E proprio per questo le cose divennero complicate. Non volevo più avere a che fare con gli altri, non volevo lavorare, non mi stupivano nemmeno più il cielo e le nuvole.
“Ma non era meglio prima?” mi dicevo, “quando avevo la mia solita routine e la felicità era poca e al contagocce, ma costante?”.
E poi qualcosa cambiò perché Maria fu presa da una strana ossessione per l'ordine e la pulizia, così tutto d'un tratto. Quella che era la casa com'eravamo abituati a vederla da sempre, cioè un totale casino che subiva sporadici sprazzi di furia ripulitrice, divenne senza spiegazione e da un momento all'altro un luogo sacro e senza più un oggetto fuori posto. Lì dove prima avevano regnato solo il caos e la sopravvivenza giorno per giorno, adesso regnava l'ordine astratto di una dimora santa. I pavimenti sembravano laghi d'alta montagna, tanto erano lucidi; sui mobili era impossibile rintracciare granelli di polvere nemmeno ci trovassimo in una sala operatoria e addosso ai vetri delle finestre, per quanto erano trasparenti, ci si schiantavano almeno due uccellini al giorno. Non che tutto questo mi importasse particolarmente, ma ebbe l'effetto di farmi lavorare molto di più e quindi rimanere sempre più spesso a parlare con la clessidra. Si venne così a creare un appuntamento fisso, tant'è che poi più tardi soprannominai quel periodo “La bella epoca dei dialoghi filosofici”.
Un giorno le chiesi: “Cos'è l'invidia?” ed ella rispose: “L'invidia è l'effetto più evidente della pigrizia e della frustrazione. Quando provi invidia verso qualcuno fermati un attimo davanti allo specchio e cerca di comprendere che una spia su di te si è accesa: sei particolarmente scontenta, non hai più la voglia di lottare, vorresti tutto subito e facilmente. Stai dando importanza a cose che non sono reali, stai facendo vincere il pensiero sull'azione, hai rotto l'equilibrio tra il dentro e il fuori e c'è puzza di chiuso. Apri le finestre e mettiti a respirare aria nuova. Pulirai così le paranoie e aspirerai a ben altro. Tu, per esempio, sei invidiosa di Gina, vero?”.
Ancora una volta aveva colto nel segno.
“Ma tu e lei siete diverse. Gina è quello che si dice un oggetto perfetto, ovvero una creazione organica e funzionale. Un colpo di genio, come lo è il libro o il chiodo. Non bisogna aggiungere niente, così come è impossibile togliere qualcosa senza che diventi improvvisamente senza senso. Gina è una scopa, ovvero un oggetto quasi in sé, che esiste da secoli e attraverserà la storia delle pulizie domestiche fino alla fine dei nostri tempi. Comoda, efficace e poco ingombrante”.
Era riuscita a tirare fuori tutto quello che io avevo solo intuito di Gina e che mi procurava invidia, eppure lo aveva detto con amore. Esplicito verso di lei, implicito verso di me col tono e le intenzioni. E dunque io compresi e non mi arrabbiai.
“Tu sei altro, anche se apparentemente assolvi alla stessa funzione e fai lo stesso lavoro. Tu sei il frutto delle nuove generazioni, in continuità col passato, ma anche in rottura con esso. Tra te e lei intercorre la stessa differenza che c'è tra la bicicletta e la moto. Di sicuro molte persone direbbero che è meglio la bicicletta, forse ipocritamente o perché davvero innamorate del suo semplice e pulito modo di essere, mentre altre, affascinate dalla velocità, dalle potenzialità e dalla tecnologia della moto, sceglierebbero quest'ultima, ma in realtà sbaglierebbero tutti perché non si possono mettere a confronto le due cose in se stesse. In quanto aspirapolvere tu sei un essere più condizionato della semplice scopa perché per funzionare hai bisogno dell'energia elettrica, ma proprio per questo sei più forte di lei e assolvi ad un compito altrimenti impossibile: fai faticare di meno chi ti usa. Vecchie signore con la schiena dolorante, pensionati che non arriverebbero a pulire gli interstizi così bene come fai tu. E poi, anche se non sei un oggetto in sé, richiami un intero mondo al solo sguardo. Non ti è mai capitato di sentirlo quando ti colleghi alla presa di corrente? Tu sei parte di un grande circuito di relazioni, in continua connessione tra loro. Potremmo dire, se fossimo pessimisti, che sei dipendente da questo circuito. Sì, sicuramente è così, ma questa dipendenza è bella e ti fa essere una cellula di un più grande organismo che vive e pulsa ogni giorno. Non avere quindi invidia di Gina, ma solo stima per lei. Non ti paragonare mai a nessuno, ma confrontati con tutti”.
Quel discorso finì così anche se avevo tantissime domande ancora da porle. Ma anche quella volta il tempo a nostra disposizione era terminato.
Un'altra volta le chiesi: “Quel è il tuo dritto e il tuo rovescio? Non riesco a guardarti mai negli occhi”.
“Il mio dritto e il mio rovescio sono vicendevolmente scambiabili l'un l'altro, perché io non ho un sopra e un sotto. Quello che dico una volta può essere detto al rovescio la volta successiva. Il mio sguardo cambia continuamente prospettiva, capovolge le cose e così facendo mette in pratica concezioni esistenziali in cui credo fermamente. Anche una frittata, affinché non si bruci, va girata più volte su se stessa. Tutto quel che dico, però, non è arbitrario, ma ha una sua storia e partendo da un'ampolla e passando all'altra si trasforma e cambia gli assetti complessivi. Ogni assetto è completamente diverso da quello precedente e gli assetti possibili sono infiniti. Non ho mai detto la stessa cosa due volte e con le stesse parole. Altre volte ho un semplice pensiero e allora lo lascio scivolare giù e in questo movimento esso diventa reale e io stessa mi accorgo di come nel passaggio dalla fantasia alla realtà le cose si trasformino e trasformino il mondo che hanno attorno. Benché il mondo sia infinito non tutte le cose sono possibili”.
Un’altra volta le chiesi: “Cosa c’è sopra di noi?”.
“Sopra di noi c’è il pavimento e sotto le stelle. Non abituarti mai a pensare il mondo con una direzione. Il mondo non ne ha. Tu per esempio consideri Maria il tuo Signore e Dio, ma lei non è al di là di te che sei al di qua di Maria. Lei fa parte della stessa sostanza del tutto e nessuno può stabilire né gerarchie né confini né schemi definitivi e assoluti. Amala ma non osannarla che nell’osannarla la allontani da te. Il vero amore infatti oltrepassa il ruolo e vede sempre la semplicità delle persone, come se stessero facendo il bagno nude nel mare della vita. Valle incontro e non avere paura del contatto della sua pelle. L’amore è un abbraccio forte, non un ossequioso rimirare dal basso, né un freddo saluto formale, come una stretta di mano tra gentleman. Scordati dunque le parole dopo, oltre, due e perché. Sono parole che esistono ma non possono essere applicate alle cose importanti. Dopo la vita? Oltre i confini dell’universo? Il bene e il male? Perché è finita? Sono domande mal poste, della cui assurdità non ci rendiamo conto. Come se dicessi: di che colore è il suono? Dove sta il qui? A che pro la musica? Molte volte infatti la migliore risposta ad una domanda sta nel non considerarla tale. Non essere dunque ossequiosa nemmeno nei confronti dei dubbi consuetudinari e cerca di capire quali sono le domande ben concepite e veramente importanti. Non cercare di rispondere a domande di altri. Così facendo sprechi il tuo tempo e non ami davvero te stessa”.
Così la volta successiva le chiesi cosa fosse il tempo.
“Il tempo sono io, sei te, è l’altro, ma non è in sé. Il tempo non è un numero, ma il fra tra due numeri; il tempo è la clessidra che va senza sapere a che ora sia partita la sabbia; è l’indecifrabile di questa vita, il mistero, l’oceano in cui nuota la realtà; l’umidità che rimane inevitabilmente attaccata al bicchiere dopo che hai bevuto l’acqua; è l’intermittenza dei lampioni nella sera senza esserne la luce; è il grande trasformatore che giace immobile; è un fuoco spento che emana ancora calore; una penna prima di scrivere, ma anche la luna piena alta nella notte. E’ la digestione dello spazio attraversato dal movimento. Il tempo, vissuto davvero, richiama la fine”.
“E cos’è la fine?”.
“La fine è adesso tanto quanto lo sarà quando giungerà veramente. La fine è la domanda suprema a cui tutte le domande cercano di dare una risposta. La fine è come il sole che dà vita alla natura, è come i suoi raggi che irradiano ogni cosa. Pensare la fine è la nostra unica possibilità per avere un degno inizio. Pensare correttamente la fine comporta la salvezza dal finire perché essendo in ogni istante non le si può sfuggire nemmeno per un attimo. La fine è una scala che conduce al principio; senza di lei tutto aleggia indecifrato nel mare dell’ancora possibile e del vago, ma quando si presenta al cospetto tutto si illumina e si cristallizza per sempre”.
Su queste parole finì il suo discorso. Ebbi la sensazione che rimanesse immobile sull’ultima parola e quella fermezza chiuse un cerchio altrimenti indecifrabile.
Un’altra volta le chiesi: “Di cosa sei fatta?”.
“Io sono fatta di sabbia e sabbia è la mia linfa. Il vetro è sabbia scaldata che diventa malleabile. Al suo interno il vetro accoglie altra sabbia. La sabbia era roccia e la roccia montagna. Sulla montagna c’erano alberi e gli alberi sono fatti di legno. Io anche sono fatta di legno perché la struttura che mi sorregge è di frassino. Dunque io sono una piccola montagna con un arbusto che vi cresce attorno, eppure anche tu sai che la mia essenza non si riduce alla mia materia, ma nel come questa montagna con l’arbusto attorno sia stata plasmata. Così come non ho dritto né rovescio, io non sono né un contenitore né un contenuto, né materia né forma, ma tutte e due insieme perché la divisione è solo nella nostra mente. Mi appago della mia origine così come della mia destinazione. Sono membro di una famiglia eppure non mi esaurisco in essa e in ciò non vedo nessuna contraddizione”.
L’ultima volta le chiesi: “Hai paura?” e sentii che ci mise più del solito a rispondermi. La sabbia scendeva e lei non parlava. In quel momento, senza che potessi oppormi a ciò che il fato aveva deciso, passò sbadata e indaffarata Maria, che inavvertitamente urtò la clessidra, che cadde a terra andando in mille pezzi. Sia io che la mia padrona rimanemmo in silenzio a contemplare attoniti l’accaduto, per tanto tempo quanto ce ne volle all’aria per far risuonare l’eco del vetro e del frusciare delicato dei granelli di sabbia che scivolavano sul pavimento.
Fu così che dopo averci pensato un po’ su Maria guardò me e poi Gina e infine decise per me. Accese l’interruttore e aspirò dal pavimento tutto ciò che rimaneva della clessidra, mentre io, ancora scioccata, mi abbandonavo piangente e svogliata al lavoro e dentro sentivo ogni minimo pezzo di lei che entrava. Invece che buttare il sacchetto nella spazzatura uscì di casa e raggiunse il colle più alto poco fuori il paese, dove il verde del prato appena bagnato dalla pioggia scintillava in modo quasi innaturale. Il gesto che fece ricordò il rito dell’aspersione delle ceneri e Maria rimase immobile a pensare a qualcosa di vagamente religioso. Tornò da me e con la solita fretta mi rispedì nello sgabuzzino. Ma io ormai ero diversa e dal quel momento le cose non furono più le stesse. Sentivo di aver acquisito, dopo la fine della clessidra, un’altra consapevolezza, quasi che io fossi il nuovo messaggero del suo modo di intendere la vita, tant’è che le pulizie acquistarono un nuovo spessore, una nuova efficacia. Ricordo ancora come fosse adesso l’espressione di stupore di Maria nel vedere come il pavimento splendesse al mio passaggio. Un lago ghiacciato o uno specchio sarebbero stati meno luminosi delle mattonelle così come le lasciavo dopo il lavoro di aspirazione. Tutto merito, intendiamoci, della mia pulizia interiore che si riverberava, per uno strano e magico effetto, al di fuori. Allo stesso modo divennero più bravi ed efficaci anche gli altri coinquilini dello sgabuzzino, anche se questo accadde nel tempo e grazie ai monologhi che impartivo loro ogni sera, al buio.
Maria era euforica e stupita allo stesso tempo. Durante le pulizie del bagno o mentre passava lo straccio saltava di gioia e cantava. Poi non la vedemmo più per mesi perché la profondità del nostro lavoro era tale che la sporcizia faceva fatica a ritornare. Il lucida scarpe, da secco e inutilizzabile che era, ringiovanì e sosteneva di non essersi mai sentito tanto bene in vita sua. Ogni sera mi costringeva a raccontargli qualcosa della clessidra o a spiegargli della vita e della vera felicità. Tutti gli abitanti dello sgabuzzino inoltre si consumavano più lentamente o meglio fruttavano di più. Bastava una goccia di sgrassatore per pulire tutta la casa e Maria non credeva ai propri occhi. La cassetta degli attrezzi era adesso molto silenziosa perché erano cessati al suo interno i conflitti famigliari. Ognuno aveva trovato il suo posto e si dava da fare per rimanerci ordinatamente, in attesa che Maria avesse qualche urgente lavoretto da fare. Dentro alle scatole del presepe nessuno russava più e anche se non era né natale né l’epifania si sentivano i zampognari suonare una musica d’avvento e di gioia, come se fosse sempre una gran festa.
Di questi cambiamenti ne beneficiò anche la stessa Maria che, oltre a divertirsi durante la cura della casa e stancarsi di meno, era diventata più assidua e diligente nello studio del violoncello. Si alzava alle sei di mattina, faceva colazione con yogurt, semi di girasole, noci tagliuzzate, un caffè macchiato senza zucchero, una spremuta d’arancia e una mela. Infilava una mise da appartamento e spiegato lo spartito sul leggio partiva con la sua maratona giornaliera di note: tre ore e mezza di filata, schiena dritta e per riposarsi solo uno sguardo ogni tanto alla valle che si intravedeva fuori dalla finestra. Poi via a correre un’ora nelle campagne, a respirare aria fresca e buona, a salutare uccellini e piccoli mammiferi impauriti. A pranzo sempre qualcosa di buono, ricco di nutrienti e sano, tipo zuppe, riso, pesce e frutta. Nel pomeriggio ricominciava a studiare, per altre tre ore, dopodiché si rilassava con un tè, per poi andare a lavoro la sera come baby sitter o cameriera. Insomma una vita intensa ma produttiva che in breve diede i suoi risultati. Tutto era più chiaro e lineare e Maria sentiva i benefici concreti nel modo di suonare, di pensare, di relazionarsi con gli altri. Le difficoltà c’erano, non bisogna nasconderlo, ed erano anche parecchie: nei passaggi musicali, nella fatica fisica, nei rapporti di lavoro, eppure la costanza che metteva in ogni ambito le donava una sorta di abbrivio con cui superava anche i momenti peggiori.
Fu così che un giorno, nel suo letto prima di crollare distrutta, si sentì felice e piena di energie per il futuro. Si domandò cos’era stato a farle fare quel salto di qualità inaspettato e incredula si alzò dal letto per andare verso lo sgabuzzino. Origliò quindi quel che si sentiva da dentro: strani sibili e movimenti quasi impercettibili.
“Ma vuoi vedere che…” pensò.
Aprì la porta con discrezione e sedendosi in mezzo agli altri ascoltò con interesse, dopodiché propose la sua idea.
Il giorno dopo invece che andare a lavorare imbracciò l’aspirapolvere (cioè me) e bussò alla sua vicina.
“Salve avrei una proposta per lei”.
“Ti sei messa a lavorare porta a porta?” chiese la signora, “A vendere elettrodomestici?”.
“No, anzi, non vendo niente. Le chiedo soltanto di lasciare una settimana questa aspirapolvere dentro il suo sgabuzzino”.
“E poi?”.
“Verrò io a riprenderla?”.
“E cosa vuoi in cambio, Maria?”.
“Nulla, solo un po’ di fiducia”.
“Mi sembra molto strano, ma visto che ti conosco da una vita…”.
Quando la signora si accorse del giovamento complessivo che avveniva tra i prodotti per la casa andò subito in chiesa a pregare Gesù che non ci fosse nessuna stregoneria dietro, ma di rinunciare all’aspirapolvere non ci pensò nemmeno un istante, tant’è che allo scadere della settimana accolse Maria come fosse una regina, ma facendola giurare che se le cose fossero tornate come una volta gliela avrebbe immediatamente riportata.
“Non si preoccupi signora” le rispose Maria, “ormai il cambiamento è in atto e nulla lo può arrestare”.
Com’era naturale che fosse in breve si sparse la voce e Maria ne fu contenta perché quello era il suo obiettivo. Doveva prendere addirittura nota delle prenotazioni e delle tempistiche, affinché tutti nel paese potessero usufruire dei miei benefici, senza favoritismi. Fui soprannominata in tanti modi: la profetessa della corrente, la mahatma delle pulizie, l’aspira polvere-d’argento, la reginetta delle aspirazioni. Fu eretta addirittura in mio onore una statua che mi raffigurava in posa plastica, mentre slitto sul pavimento come un giocatore di hockey su ghiaccio! Finché un giorno, com’era naturale che accadesse, qualcuno mi rapì, forse per dei facili guadagni o per chiedere un riscatto, sprofondando Maria e con lei tutto il paese nel più inconsolabile dei pianti. Seguirono giorni lunghissimi e tristissimi in cui si perse la speranza non solo di ritrovarmi, ma anche che un futuro migliore ci potesse essere per gli uomini. Chiedeva infatti Maria: “Se esistono persone che rubano qualcosa che è dato loro gratuitamente, come possiamo sperare che le cose cambino davvero un giorno?” e tutti annuivano sconsolati. Poi Maria si chiuse in un tetro mutismo e in breve tutta la sua casa e con essa il paese ritornarono sporchi come prima, grigi come sempre. Era stata una bella parentesi, decisamente una strana avventura, una spruzzata di primavera in un inverno dell’anima, ma adesso si era conclusa nel peggiore dei modi e toccava ritornare con i piedi per terra. Gli abitanti del paese si scordarono velocemente dell’accaduto e Maria riprese le sue monotone e faticose giornate.
Una sera però, rincasando dal lavoro, passò sopra ad un tombino che invece che sprigionare la solita puzza, emanava una fragranza di menta. Subito pensò che potesse essere un indizio della mia presenza e con forza spostò il tombino di ferro per poi ficcarsi dentro alla fogna, anche perché era pulitissima e piena di pesci. Risalì quindi la corrente e lì dove i sentieri sotterranei si biforcavano imboccava sempre dove l’acqua era più pulita e profumata, fino a giungere proprio sotto la casa di un tipo di cui tra l’altro sospettava.
“Ma non mi dire che…” disse pensosa, “Ma certo come ho fatto a non pensarci prima!”.
Era la casa del venditore di prodotti per le pulizie, colui che più di tutti aveva sofferto di una tale rivoluzione, perché non vendeva più nulla. Maria bussò alla sua porta e aspettò impaziente che aprisse, non ancora sicura di quel che avrebbe detto e fatto. A dimostrazione di quanto il tipo avesse la coscienza sporca fece finta di non essere in casa, cosa che scatenò la rabbia di Maria, che l’aveva sentito maldestramente muoversi dietro la porta. Gli intimò dunque di non fare il furbo. Il negoziante allora aprì in lacrime e cadendo in ginocchio chiese umilmente perdono. Disse che aveva avuto paura di andare fallito, che aveva avuto il terrore di dover cambiare tutta la sua vita, che non sapeva più che pesci prendere e con chi consultarsi, visto che tutto il paese amava quella maledetta aspirapolvere e le sue magie. Ma queste erano solo scuse che non interessavano a Maria che in quel momento era tutta preoccupata di ritrovarmi al più presto. Cercò quindi dappertutto, rovistò nei ripostigli e negli sgabuzzini, ma non mi trovò.
“Dov’è?” chiese a muso duro.
“Non lo so. E’ volata via. Lo giuro!”.
“Che significa?!”.
“Perdonami. Anche se l’avevo nascosta, tutti gli oggetti della casa, ogni nuovo giorno che sorgeva, diventavano più efficienti ed efficaci e una lucentezza diversa spigionava da qui. Ebbi allora paura che qualcuno se ne potesse accorgere e in preda al panico la gettai dalla finestra!”.
“Meschino!” urlò Maria disperata.
“Ma no, aspetta” cercò di difendersi lui, “perché a quel punto accadde l’inaspettato: l’aspirapolvere non cadde a terra ma volò alta nella notte, tra le stelle e la luna, come fosse la scopa di una strega!”.
A quel punto però balenò nella mente del farabutto un’idea malsana, ma che, come vedremo, fu di una furbizia assoluta. Indicando Maria aggiunse: “E io ho paura che la strega sei tu!”.
Nel frattempo infatti si era radunato un drappello di compaesani, attirati dalle urla e dalla sceneggiata, e come si sa, appena si dà della strega a qualcuno, al di là del fatto se sia vero o meno, c’è sempre qualche stupido pronto a crederci. In una frazione di secondo Maria capì che le cose si stavano mettendo molto male in quanto, come si dice, il pettegolezzo corre per le strade più rapido di una palla di cannone e anche la menzogna più assurda alla fine esplode tra la gente, se c’è qualcuno che la fomenta. Scappò quindi all’impazzata da quel posto fino a che non si trovò intrappolata nella piazza, circondata dalla folla urlante, in una tipica scena dallo stile medievale, coi forconi, le torce e le facce invasate dei beceri paesani.
Ma per fortuna io non mi ero allontanata poi troppo da lì ed ero pronta a qualsiasi evenienza. Planai quindi velocemente verso di Maria che montò in sella appena in tempo, lasciando tutti esterrefatti e senza preda.
Volammo così alti nella notte, abbracciati e felici, e quando la gioia col tempo scemò, mentre ancora ce ne andavamo libere nel cielo stellato, mi resi conto che la scena che stavo vivendo era la realizzazione esatta delle mie aspirazioni di una volta.