Era un giorno come un altro, nulla faceva presagire cosa sarebbe successo. In un angolo del pianeta che deve rimanere assolutamente sconosciuto, un sergente il cui nome deve rimanere assolutamente segreto, pronunciò il consueto: “Soldati, rompete le righe!”, ma a quel comando tutte le righe di tutti gli eserciti del mondo andarono in mille pezzi, senza possibilità alcuna di ricompattarsi. Fu un evento di proporzioni inaudite, un disfacimento totale, un fatto assai strano e incomprensibile, che lasciò tutti di stucco.
All'indomani di questa tremenda giornata gli arruolati dell’Esercito, dell’Aeronautica e della Marina si ritrovarono a spasso e senza lavoro. Distrutte le caserme, rottamati i mezzi militari, abbattute le gerarchie e andate in fumo le divise, ecco migliaia e migliaia di uomini e donne di tutte le nazionalità e culture, una volta belli e assoldati nel proprio paese, vagare per le strade della Terra senza una meta né una direzione, proprio loro che più di ogni altri s’erano abituati a rigare dritto, camminare in fila ed essere inquadrati da mane a sera.
Gli ex militari, cercando di mantenere una sorta di continuità con il passato, si diedero orgogliosamente un nuovo statuto, anche perché senza ruoli non ci sapevano proprio stare. I Generali si rinominarono Particolari; i Luogotenenti Vuototenenti; i Sergenti Perdenti, i Marescialli Menestrelli, i Caporali Teatrali e i Capitani Capitolati. Insomma non riuscirono a non far trapelare nel nome del loro nuovo grado le implicazioni psicologiche di quel che gli stava accadendo.
Sul forum del loro sito internet provvisorio (www.esercitoinesercizioprovvisorio.it) si discuteva di come farsi comunque riconoscere dalle persone, adesso che non c'erano più divise, ma la discussione, a dir il vero realmente spinosa, rimase insoluta per anni, finché qualcuno non propose un’idea interessante: i Menestrelli avrebbero adottato il vestito di Pulcinella, i Particolari la maschera di Pantalone, i Capitolati Arlecchino e così via con tutta la Commedia dell’Arte. Sulle prime sembrò una soluzione geniale, se non altro perché non bisognava fare grandi sforzi d'immaginazione, ma subito cominciarono a serpeggiare dubbi e lamentele: “Chi ce li rimedia tutti quei vestiti? Chi ce li lava dopo le missioni? E anche se fosse, a quanti gradi vanno lavati?”.
Ma ormai la frittata era fatta e già alcuni menestrelli vestiti da pulcinella, cioè i più euforici e intraprendenti, giravano per le strade del mondo a fare proselitismo, senza più possibilità di ritirare la direttiva.
Ma ora basta con tutti questi particolari e in particolare basta con la storia generale, è arrivato il momento di scendere nel dettaglio, o meglio nel particolare, cosa che in generale mi viene assai meglio che generalizzare.
Il tipo che mi sono preso la brighella di raccontare è uno degli ex generali dell’Aeronautica, dunque andava in giro vestito da Pantalone. Il suo nome è assai semplice: Mino Nino Maniscalchi della Gente di Moda, Ben Pasciuto e Conosciuto dai figli di Mam che, alla stregua di Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Cobentraz e Sura, era un tipo la cui identità, come si può ben intuire dal nome, non era in pericolo di identità con nessuno.
Mino Nino, essendo stato militare, nutriva un certo attaccamento per le camminate svelte e ben cadenzate, ma le tortuosità dei terreni del mondo non gli permettevano di camminare in siffatta maniera, tant’è che un certo nervosismo aleggiava sempre attorno al suo sopracciglio sinistro, arcuandolo mentre passeggiava, occupazione che occupava la maggior parte del suo tempo libero, cioè tutte le giornate dacché non prestava più servizio come Generale dell’Aeronautica.
Camminando si fermava a guardare ogni cosa incontrasse lungo la via e nondimeno a commentarla: “Guarda che bel ramoscello oblungo e marroncino di iperico con fiore giallo sbiadito posizionato a tu per tu col raggio di sole crepuscolare che partendo otto minuti e trentaquattro secondi fa arriva or ora sulla Terra così che io possa rimirarlo mentre nel cuor ho malinconia e timor...” e se non c’era qualcuno nei paraggi a fermarlo o qualche altra cosa a distrarlo scendeva sempre più nei particolari, fino a perdercisi totalmente. Una fatica immane vivere così, eppure lui ci viveva, in quanto ogni istante accadeva una cosa nuova e la sua mania di scendere a descrivere le minuzie più minuzie si perdeva come il volo di un’ape di fiore in fiore, come faceva una volta quando osservava le cose dall’alto del suo abitacolo aereo, un compattissimo e maneggevolissimo Aermacchi MB-339PAN, quello delle frecce tricolori, la cui ultima esibizione risale ormai al lontano... ma scusatemi, nella foga dello scrivere mi sono lasciato influenzare dalle caratteristiche del mio personaggio. Questi e altri sono i rischi della narrazione…
Ma la condizione rialzata del sopracciglio di Mino non era dovuta soltanto alle asperità del suolo, né alla maschera che indossava, bensì al fatto che il terreno fosse a pochissima distanza dal suo sguardo. Ciò che più gli mancava della sua vita d'aviatore era la veduta d’insieme e in quell’arcuare il sopracciglio sinistro lui cercava come di alzarsi nuovamente in volo, una specie di retaggio somatico del suo antico modo di vivere. In sella al suo jet infatti il mondo era molto più chiaro e nitido, la Terra molto più facile da interpretare, e lui volando così per cieli azzurri si sentiva sempre indisturbato e onnicomprensivo. Sulla Terra invece, in mezzo alle cose di questo mondo, a poco più che a un metro e mezzo di altezza, tutto era ristretto e soffocante, come i gangli vegetali delle liane in una giungla amazzonica o i rovi impenetrabili di un qualsiasi campo lasciato a sé stesso.
Mino Nino, col suo mantello nero, la tuta rossa e le scarpe a punta gialle, sfrecciava tricolore sull’antico basolato di un sentiero ormai in disuso, attraversando antiche rovine, mulini medievali e ponti di pietra. Ogni giorno sempre lo stesso percorso, avanti e indietro, come un ossesso o un fantasma dannato. La sua attenzione verso ciò che lo circondava era inquieta ma precisa, bruciante e spasmodica, ma anche analitica e indiscutibile. Voleva capire fino in fondo e ciononostante si soffermava sempre su cose diverse, senza mai trovare una regola generale che le unisse. Alzava il sopracciglio e diceva: “Vedo qui un muschio il cui ciclo vitale sta per giungere a compimento, il cui verde è ormai spento, il cui odore è bello che andato, ma il cui manto è ancora in grado di ospitare insetti delle più innumerevoli specie, specie se…” e così via a scendere sempre più nel particolare, come un microscopio. Poi per fortuna passava un calabrone e Mino Nino, seguendolo, diceva: “Vola ma non dovrebbe, come Paganini esegue ma non ripete… c’è forse un mantello musicale oltre a queste note che sto notando? O è tutto un susseguirsi di sbattimenti vari?”.
Un giorno però vide qualcosa di molto originale e per un attimo ne fu sorpreso mettendosi come un serpentello sull’attenti. Vicino a una cascatella c’era una ragazza che dormiva, come cascata dal cielo.
Mino Nino s’avvicinò circospetto, saltando da un sasso all’altro. Era una ragazza di sedici anni al massimo, dai biondi capelli corti, addormentata? svenuta? morta?
Indossava pantaloncini neri, una maglietta senza maniche ugualmente nera e la sua pelle da nordeuropea era martoriata dai pizzichi di zanzara. Il viso, da scoiattolo, presentava svariati pirsing: all’orecchio, sul mento, sul naso e chissà… a questo punto forse pure sulla lingua.
Mino Nino (vestito da Pantalone ricordiamolo) la scrutava senza dire niente, cosa per lui assai strana, mentre il sopracciglio gli si arcuava sempre di più e lo sguardo, insieme al volto, planava su di lei lentamente.
A quel punto, come punta sul vivo, la ragazza si svegliò. Osservò il suo osservatore e senza paura si alzò sul gomito per capire dove fosse. Poi sospirò e sicura di sé lo scostò con il braccio per proseguire sul sentiero.
Mino Nino la seguì con lo sguardo, poi decise di seguirla sul serio, ma di soppiatto, per quanto non ci fosse niente di segreto nella sua presenza, di cui lei però sembrava non curarsi.
La ragazza camminava o meglio girovagava per i boschi, ogni tanto fermandosi, molto spesso per grattarsi, e pur non dando l’idea di sapere dove stesse andando, trasmetteva una certa sicura insicurezza. E silenziosità.
“Come mai non dici niente mentre cammini per i boschi?” le disse Mino a un tratto, troppo curioso.
Lei si voltò e con un sorriso gli rispose: “E che c’è da dire?”.
La raggiunse e togliendosi la maschera pensò fosse corretto innanzitutto presentarsi con un inchino, così come in passato gli era sempre stato detto che fosse educato fare: “Mino Nino Maniscalchi della Gente di Moda, Ben Pasciuto e Conosciuto dai figli di Mam, ex Generale dell’Aviazione, oggi Particolare dell’Attenzione”.
Poi tornando alla domanda che lei retoricamente gli aveva posto, chiese: “Come sarebbe a dire che non c'è niente da dire? Ce ne sarebbero un sacco, anche se non sappiamo perché le diciamo…”.
Lei sorrise nuovamente e rispose: “E dopo che abbiamo detto tutte le cose che ci sono da dire… che si fa? l’amore?”.
Mino fece un salto all'indietro aprendo le braccia in un gesto teatrale, più per lo stupore che per lo spavento. Simili ragazze esistevano oggigiorno?
“Cos’è? un trabocchetto?” le chiese, “O un modo per prenderti gioco di me?”.
“Guarda vecchio che qui nessuno vuole prenderti in giro” rispose la ragazza con quella strafottenza tipica degli adolescenti, “Basta con le paranoie. Volevo solo dire che è inutile parlare, se poi il succo è quello lì… o sbaglio?”.
“Bimba” rispose piccato lui per non farsi mettere sotto da una ragazzina, o almeno per dimostrarlo a sé stesso, “Avevo solo intenzione di sapere il tuo nome e il motivo del tuo girovagare nei boschi. Quanto all’amore, vista l’età, non puoi esserne poi troppo un’esperta”.
“Mi chiamo Ivette” rispose lei noncurante e stanotte sono stata ad un rave party. A una certa non c’ho capito più nulla e mi sono ritrovata qui. Hai qualcosa da mangiare?”.
Mino l’osservò meglio: Ivette era una ragazzina abbastanza bassa e senza seno, ma dalla forte carica sensuale. Il viso, molto carino, era il suo punto di forza. Gli occhi azzurri, contornati da pelle arrossata, erano lo strumento con cui metteva a segno quelli che per lei dovevano essere degli irresistibili sguardi seducenti, che distribuiva con totale spensieratezza, quasi fossero il suo naturale modo di comportarsi verso tutto e tutti. Mino non si curò della sua arroganza, si sentì invece pervaso da un senso di tenerezza e paternità. A tal punto sincero che stette al gioco e cercò il più possibile di dissimulare un’espressione rispettosa e attenta.
Vedendo che Mino non rispondeva Ivette gli fece una nuova domanda: “E tu che ci fai qui, sperso in questo racconto? Come salti fuori?”.
“In questo racconto?” replicò Mino confuso.
“Sì dai, è un modo di dire. Si usa per dire la vita, no?”.
“Ah, beh sì. Come salto fuori?” e stando al gioco disse: “Un po’ dal cilindro”.
“Bene, così mi piaci” rispose Ivette senza tette, regalandogli un sorriso sincero, diverso dagli altri perché finalmente non volto a sedurre.
I due, una coppia davvero particolare bisogna pur dirlo, passarono la giornata a camminare per il sentiero che Mino percorreva ogni giorno in lungo e in largo, non sapendo perché lo facevano, anche perché lo stesso autore non riesce a capire dove andranno a parare i personaggi con questo loro strambo modo di fare. Sconclusionati tutti e due, chi per un verso chi per un altro, se la spassano un sacco a lasciare che la giostra del mondo li culli attorno al sole con fare lento e impercettibile, mentre la brezza tira, gli insetti sfrecciano e nella luce del crepuscolo vorticano moscerini indaffarati a sembrare una nuvola di magia.
“Ti va di fare il bagno nel ruscello?” disse Ivette e questa volta Mino arrossì sul serio al pensiero di spogliarsi davanti a lei e d’immergersi nell’acqua fredda. Ci pensò e non troppo entusiasta rispose di sì. Ma Ivette era già nuda, dimostrando con le sue immature forme di non avere nemmeno i sedici anni che Mino pensava che avesse e di essere tutto tranne che seducente. Insomma era una sedicente sedicenne non troppo seducente. Scusate ma, ve ne sarete accorti, amo troppo i giochi di parole e, come dice il caro Oscar, si può resistere a tutto tranne che…
“Mi raccomando” disse a un tratto Mino rivolgendosi al cielo, quindi in un certo senso rivolgendosi a me che scrivo, “fa che non arrivi qualcuno proprio adesso, non voglio essere scambiato per un pervertito”.
“Non ti preoccupare Mino” gli risposi io sotto forma d’inconsapevole quanto indecifrabile certezza, “non mi piacciono i tipi così e non trovo nessun piacere a scrivere di loro. Che dici, sono un po’ all’antica come scrittore?”.
Ma Mino era già svestito e non pensava più a niente se non a coprirsi le sue vecchie pudende e non mi diede un riscontro, per me molto importante. In fondo era imbarazzato ma contento.
Si schizzarono l’acqua come nel più classico dei film e ora che li vedo così mi sembrano proprio due belle figure, zio e nipotina, che giocano nel ruscello freddo, senza curarsi di come si sarebbero asciugati e di come avrebbero passato la notte subito dopo.
Ivette, tornando a fare l’ammiccante, disse a Mino, alla fine di una grande risata: “Se il mondo fosse inventato da uno sceneggiatore che scrive, questa dovrebbe essere la scena che viene prima di…”.
“Ancora con questo amore?” rispose Mino, fresco e sicuro di sé, “Sei fissata?”.
“E chi non lo è?” disse lei pronta, schizzandolo nuovamente, “Per te forse non lo è? Eh?” e gli si avvicinò persino.
Ma Mino non si lasciava più allontanare dalla sua ritrovata sicurezza, ormai la vedeva come una bambina che gioca e basta e prendendola alla sprovvista la lanciò nell’acqua proprio come faceva col suo nipotino tanti anni prima. Quando Ivette risalì in superficie nel suo sguardo c’era rabbia e delusione. Capì di non avere su quel vecchio l’ascendente che pensava di avere, eppure dopo un attimo tornò di buon umore. D’altra parte che gliene importava di fare colpo su quello strano signore? Anzi, meglio così. E si rilassò anche lei.
“Adesso ho veramente fame” disse uscendo dal ruscello, “e veramente freddo. Come si fa?”.
Mino sfoggiò la sua conoscenza dei luoghi: “Potremmo proseguire per questo sentiero fino al ponte che fu di epoca romana, oltrepassarlo e salire per la strada antica, godere del panorama delle gole millenarie, approdare appena in tempo per la cena nel vecchio borgo di un paese di cento abitanti, fortificato dagli etruschi e poi consolidato in epoca romana e medievale, assaporare i suoni delle tv che dalle case si spandono per i vicoli, ascoltare la voce delle stoviglie nei lavandini, scrutare lo sguardo sornione dei gatti alle finestre, cercare in un bar un tramezzino o una focaccia, vedere se abbia bagno, asciugamani e gentilezza…”.
Ivette non credeva alle proprie orecchie, quel tipo era proprio strano.
“Va bene, va bene… mamma mia che strazio…”.
Giunti in paese ebbero una sorpresa: nella piazza principale era stata allestita la sagra dei pizzicotti, una pasta locale condita con la noia.
“Che tristezza” commentò Ivette alla vista di una decina di piccolo borghesi di provincia spaparanzati su sedie di plastica bianca a mangiare avidamente in piatti di plastica bianca striminzite pietanze in bianco, mentre un piano bar suonava svogliatamente il repertorio più becero della musica leggera italiana di tutti i tempi.
Visto che Ivette non aveva un centesimo pagò tutto Pantalone, il che lo mise di uno strano umor nero. Il povero Mino, dacché non era più arruolato, faceva fatica a sbarcare il lunario e il suo vecchio gruzzoletto incominciava a diminuire a vista d’occhio, tant’è che quando un gruppo di bambini incaricato di sparecchiare cercò in buona fede di portargli via il piatto d’insalata credendo che l’avesse finito ringhiò come un cane a cui si tolga l’osso da sotto il muso.
“Regazzì, questo no, non l’ho ancora finito” e il bimbo indietreggiò impaurito col suo sacco di plastica in mano.
Ma il sincero vinello paesano trasfigurò ogni cosa. Grazie a Bacco anche quella sagra della tristezza poté regalare emozioni interessanti. Dopo il primo bicchiere, complice la stanchezza e il freddo, Mino e Ivette incominciarono a ridere di ogni piccola stupidaggine, fregandosene dell’impressione assurda che potevano destare agli sguardi dei paesani. La musica del piano bar, cantata da un tipo con la voce nasale e monocorde, sembrava suggestiva e foriera di ricordi. Mino si appassionava alle canzoni dei suoi tempi, mentre Ivette, inaspettatamente, sapeva a memoria le canzoni della Pausini e di Biagio Antonacci.
“Ma dai!” la scherniva Mino dimostrando una particolare conoscenza della musica del momento, “non ti ci facevo appassionata di musica così. Mi t’immagino di più che ti scateni sulla acid house o con la techno”.
“E infatti è così” rispose lei trascinandolo per un braccio, “si fa in questa maniera” e lo mise in mezzo a ballare.
I paesani facevano finta di non guardarli: la ragazza dark e quel tipo vestito da Pantalone al centro della piazza, testimoniavano il fatto che il mondo, al di là dei meschini giochi di potere locali per gli assessorati e le speranze per le autorizzazioni a costruire nei terreni agricoli, era molto più vasto e variegato di come l’avessero mai immaginato.
E infatti una figura vestita da Arlecchino s’intromise tra i due, scortando serioso Mino fuori dalla pista da ballo.
“In generale non dovremmo dare nell’occhio” gli disse nell’orecchio, “Abbiamo ancora una reputazione da difendere, un onore da mantenere!”.
Era infatti un ex capitano dell’esercito.
Mino rispose seccato: “Non sono particolari che la riguardano, Signore” e divincolandosi tornò al centro della scena con Ivette.
Ma l’Arlecchino aveva amici in paese e con un gesto della mano chiamò a sé tre Pulcinella, due Truffaldini e una Scaramuccia, un contingente di contingenti. Lo portarono via mentre urlava e scalciava. Ivette osservò incredula, abituata a vedere i celerini fare queste cose durante i love party, non certo le maschere della commedia dell’arte.
“All cops are bastard!” gridò per un automatismo ormai ben consolidato e in quel momento altri due Truffaldini uscirono allo scoperto per acciuffarla.
“All masks are bastard!” gridò di nuovo mentre sgattaiolava via di lì, in mezzo alle frasche, salvandosi.
Portarono il caro Mino in una cella buia e angusta, dal tetto di legno di castagno, in una casa torre. Dalla finestrella con le inferriate poteva vedere tutto il paese, anche la valle illuminata dalla luce lunare e un non so che di piacevole, malgrado la situazione, lo colse nel cuore. Il sopracciglio si rilassò abbassandosi. Quella vista dall’alto, quel paesaggio collinare, coi covoni sparsi non troppo casualmente, erano stupendi. Una musica di organetto suonava nell’aria festosa della sera, come se si stesse ancora nei primi del novecento. Che tempi quelli! con i biplani fragili e lenti che solcavano il cielo, e i primi uomini che volavano, assaporando la nuova sensazione di dominare il mondo con uno sguardo unico, trovando la pace nella consapevolezza di essere dei privilegiati. Le sciarpe al collo che sventolavano come bandiere, i giubbotti di pelle, gli occhialoni e gli stivali. Che emozione l’aviazione!
Una voce da gatta furba lo chiamò dal basso. Era Ivette. Si affacciò e la salutò con la mano che sporgeva.
“Come si fa a farti scappare?” gli disse lei.
“Lasciami perdere Ivette” le sussurrò lui dall’alto, “piuttosto scappa, prima che ti acciuffino”.
“Mino! Non posso lasciarti lì, sei mio amico!”.
“Ivette io sto bene, sai? Da qui c’è una pace: la luna, l’organetto, la valle… e si vede anche il mare, mi sembra”.
“Che dici? Sei impazzito!”.
“Non lo so, ma laggiù non fa per me. Troppe cose tutte addosso, troppa vita tutta insieme”.
Ivette si sporse di più dal masso dietro al quale era nascosta, come per sentire meglio quel che il suo amico blaterava.
“Dici veramente? Vuoi rimanere in cella?”.
“Sì, almeno credo. Tu non capisci perché sei giovane, ma per noi che si faceva parte di un altro mondo che ora non c’è più, che s’è sgretolato da un momento all’altro, è come vivere in continuazione nella speranza che nulla sia mai successo, che qualcuno ci dica che i tanti anni passati a illuderci non sono stati vani e che prima o poi torneremo agli splendori dell’epoca d’oro. Io volavo e volando volavo felice sulle cose. Ora invece, Ivette, non volo più, ma striscio”.
Ivette era senza parole, ma già la sua mente correva altrove, di storia in storia, di attimo in attimo, senza alcuna logica, abituata com’era a vivere nel fluido delle cose come si presentano alla vita, e quindi anche un po’ cinicamente, distante. Fece un passo verso il resto del mondo, voltando le spalle a Mino.
Eppure in quello stesso momento si sentì un forte scricchiolare. Il tetto della cella stava cedendo. Come mai? Beh, ci sarebbe da scrivere un altro racconto su questo, così come su tutte le altre cose che s’intrecciano in maniera imprevista con la storia principale che viviamo. Il fatto è che, per farla breve, da circa duecento anni, un formicaio aveva trovato alloggio nelle travi portanti del tetto di quella casa torre, forandolo, bucandolo, sminuzzandone gli interni. Un lento e particolarissimo lavoro da certosini, che le formiche non sapevano di certo sarebbe stato la rovina della loro antichissima civiltà un giorno. Cioè proprio quel giorno lì, anzi quella notte. Il tetto cadde con un tonfo improvviso, mentre Mino riuscì a malapena a coprirsi la testa e ad accovacciarsi. Per sua fortuna ormai quel legno era ridotto solo a segatura. Giusto un paio di tegole gli diedero una bella botta, ma niente di che.
Quando il polverone cessò Mino alzò lo sguardo al cielo e trovò la luna che col suo faccione tondo lo guardava allegra. Gli sembrò che ironicamente gli dicesse: “Bisogna stare attenti alle formiche Mino, sempre!”.
Intanto Ivette era tornata sui propri passi, esattamente gli stessi, e un poco troppo sorpresa per essere un’adolescente di oggi osservò la nuvoletta di polvere alzarsi dalla cima della torre dov’era rinchiuso Mino.
Dopodiché vide anche lei la luna e rapita in un non so che di particolare capì che non c’era stato rave party più bello di quella serata lì, capì che la magia è tutta un’altra storia. Delle cose che aveva vissuto, quell’istante appena trascorso era il più luminoso e vero.
“Mino come stai!?” gli urlò mentre la gente incominciava ad affollarsi per l’accaduto. Stava bene. Si affacciò ridendo dalle macerie.
“Vieni giù, prima che arrivino le lucertole!”.
Mino non ci capiva più niente. Ora che c’entravano le lucertole? Ma forse era solo un altro modo di dire della ragazza o forse una volta arrivate le formiche dovevano pur arrivare le lucertole. Insomma capì anche lui che non si doveva fare troppe domande e come un pipistrello aprì il mantello per buttarsi di sotto, per spiccare il volo.
“No, che fai!” gli disse Ivette preoccupata, “Così ti ammazzi!”.
“Ma no che non mi ammazzo” pensò Mino mentre si lanciava, “come si fa a morire in un racconto così particolare, dove anche lo scrittore s’è ormai affezionato al suo personaggio? Avrebbe architettato tutta 'sta storia per non farmi poi fare nemmeno l’ultimo volo acrobatico?”.
Il povero Mino però non sapeva che l’autore, quando l’aveva posto in cima a quella cella e poi anche quando aveva scoperchiato il tetto per fargli vedere la luna, non aveva mica intenzioni precise e ben pensate. Sapeva vagamente che gli sarebbe piaciuto vederlo felice ancora una volta, ma mica sapeva la maniera per farcelo diventare. E ora? Cosa fare? Non è che mi piacciano poi troppo le sorprese escogitate appositamente per uscire da un’impasse narrativo. Già con le formiche ho fatto uno strappo. Non posso mica far comparire un laghetto là sotto così di punto in bianco. Tanto vale entrare in scena direttamente e prenderlo al volo dalla caduta, sarà sfacciato ma almeno è onesto.
“Op-là, acchiappato!” dissi abbracciandolo.
Mino salvato da questo strano tipo biondo che lo guardava bonariamente disse: “Ci conosciamo forse?”.
“Effettivamente così da vicino non c’eravamo mai visti”.
In quel momento arrivò anche Ivette, trafelata.
“Che spavento! Che spavento!”.
Poi rivolta a me: “Lei è un eroe. Ma come ha fatto?”.
“Come un vero e proprio deus ex machina” risposi molto sinceramente.
Nel frattempo giungeva anche la gente del paese, con la quale non mi andava affatto di stare a intrecciare racconti. Allora proposi ai due di andarcene insieme lungo la strada, tanto con la luce della luna tutto si faceva più chiaro. E così c’incamminammo.
Ivette era tranquilla e anche contenta di vedermi.
“Allora?” le dissi a un tratto, “Cosa vedi nel tuo futuro?”.
“Non so, ma dopo stasera, niente di particolare…” rispose lei.
Poi mi rivolsi a Mino e abbracciandolo amichevolmente gli dissi: “E tu mattacchione? Sei soddisfatto? Hai visto cosa ho dovuto mettere in scena per farti fare un ultimo volo?”
E ridendo come vecchi amici ce ne andammo tutti e tre nella notte.